Sezione Contributi dei Soci

Narrativa

Marino  Cassini

http://www.marinocassini.it

Nato a Isolabona, Imperia, il 29 maggio 1931

Vive la  prima infanzia parte presso la nonna materna e  poi in Francia dove i  genitori, dopo aver lavorato negli hotel della Costa Azzurra, aprono nel  1936  ad Antibes un piccolo negozio di alimentari.  Nel 1938, a causa del conflitto italo-francese, la famiglia è costretta a ritornare in Italia.

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Genere: Racconto

Molti anni fa, al termine di un lungo filare di viti, nacque un grappolo d’uva bianca. Aveva molti acini smeraldini, succosi, dalla pelle vellutata e liscia.

Mamma Vite, come era solita fare ad ogni stagione, aveva dato a tutti i chicchi un nome diverso, ma quell’anno i chicchi erano troppi e così, rimasta a corto di nomi, l’ultimo lo chiamò semplicemente Acino o meglio Cino.

Mamma Vite era l’ultima pianta di un lungo filare di sue coetanee e cresceva vicina ad  ulivo dal tronco rugoso e dalle foglie di color verde-argenteo.

Un mattino Cino, guardando verso l’alto, vide pendere, appesa ad un esile ramo, una bella oliva verde, tonda, panciuta, liscia come lui.

– Ciao, come ti chiami? – le chiese salutandola

-..Mi chiamo Olivia e tu?

– Io, Acino: Cino per gli amici.

A Cino Olivia piacque subito e fu un amore a prima vista. Anche Olivia non fu insensibile all’amore di Cino e così l’estate trascorse per i due in un colloquio continuo, fatto di dolci parole, miste a sguardi adoranti.

Ma poi venne ottobre. Un mattino Olivia, dall’alto del suo ramo, vide un gruppo di donne e di uomini in fondo al filare, muniti di cesti e di cesoie.

– Cino, chi sono? – chiese incuriosita.

Purtroppo Cino sapeva chi erano; glielo aveva detto sua madre pochi giorni prima. “Tra poco, figlio mio, verranno molti uomini e donne a prendere te e i tuoi fratelli. Vi metteranno in grossi cesti, poi in capaci tini dove verrete pigiati e di voi rimarranno solo gocce d’oro, dolci, profumate. Un nettare prelibato che sarà conservato in bottiglie”.

Tutto questo Cino spiegò a Olivia che lo ascoltò col cuore sospeso e angosciato.

– Allora non ti rivedrò più?

Cino non le rispose. Aveva voglia di piangere.

– Addio! – disse Olivia, vedendolo cadere in una cesta. – Addio! – ripeté piangendo.

Per Olivia passarono giorni tristi, interminabili. In un giorno freddo  di fine novembre  vide avvicinarsi al suo albero alcuni uomini muniti di lunghe pertiche e di ampie reti.

– Chi sono? – chiese alla madre.

– Sono uomini venuti per scuotere i miei rami con quelle pertiche – rispose la madre. – Voi cadrete tutte nelle reti; sarete raccolte nei sacchi, gettate in una macina e frantumate da grosse ruote di pietra. Di voi rimarranno gocce dorate, profumate, tanto preziose da essere conservate in bottiglie.

– Com’è capitato a Cino? – volle sapere Olivia, colta da una improvvisa speranza. Mamma Ulivo annuì.

E la speranza divenne realtà.

Trasformata in poche gocce e chiusa in una bottiglia, un giorno Olivia venne sistemata sul ripiano di un negozio, proprio a fianco di una bottiglia di vino. Pensò a Cino e, guardando attraverso il vetro, le parve di vederlo. Lo chiamò con ansia. Sì, era proprio lui! Anche Cino l’aveva subito riconosciuta e la salutava con gioia.

Così il colloquio interrotto mesi prima, riprese.

Un mattino una giovane donna si fermò vicino allo scaffale e cominciò a guardarsi attorno.

– Oh, che sciocca! – disse, vedendo le due bottiglie. – Per poco non dimentico l’essenziale per cuocere il pesce come piace a mio marito!

Prese le due bottiglie e le ripose nel carrello.

– E adesso che succederà? – chiese Olivia a Cino

Successe la cosa più bella che potessero immaginare e sperare. Giunta a casa, la donna mise in un tegame un trito di cipolle, prezzemolo, aglio, lo cosparse abbondantemente di olio in cui si trovava Olivia, vi aggiunse un pugnello di pinoli pestati assieme a due acciughe spinate e vi posò sopra le fette di pesce. Fece rosolare il tutto e poi, prima di mettere il tegame nel forno, bagnò il pesce con tre bicchieri di vino bianco dove si trovava Cino.

Finalmente, avvolti dal calore del forno, i due innamorati poterono abbracciarsi e fondersi assieme per offrire tutto il loro gusto e il loro profumo al pesce che cuoceva allegramente.

© 2005  M. Cassini

Piero Campomenosi

Nato a Santo Stefano d’Aveto il 21 agosto 1944, risiede a Rapallo.Laureatosi a Genova con una tesi di filosofia della scienza su P. W. Bridgman il 29 luglio 1971, si è dedicato all’insegnamento nelle scuole medie inferiori ( materie letterarie) e superiori ( storia e filosofia), ottenendo per la prima volta l’Incarico di preside nel 1994.

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Olimpo fu figlio di nessuno, padre di nessuno, fratello di nessuno, ma fu qualcuno.

Era capitato in paese come un meteorite sfuggito a una cometa, e che avesse qualcosa delle stelle si poteva ben dire almeno a giudicarlo dagli occhi folgoranti, dai capelli chiari e luminosi e dalla carnagione argentea, che facevano vagamente pensare ad una creatura astrale. C’era chi sosteneva che alloggiasse nel fondo di una vecchia caserma disabitata, chi affermava di averlo visto entrare in un garage, chi in un cascinale di legno nel bosco.

L’unica espressione, che uscì dalla sua bocca nei due mesi di permanenza nel borgo montano, fu il nome.

– Mi chiamo Olimpo! – aveva dichiarato.

– Si chiama Olimpo.. – fu riferito al sindaco, che convocò per il caso, nella tarda sera, un Consiglio Comunale straordinario.

– Occorre assolutamente venire in possesso dei dati anagrafici di questo individuo! – esclamò il primo cittadino davanti alla platea delle autorità locali. – Se dovesse succedere qualcosa di increscioso di cui ritenerlo responsabile, mi dite voi come potremmo contestare a questo tale il reato, dal momento che non sappiamo nient’altro che il nome?

Diede quindi ordine alle due guardie municipali di controllarlo a vista, come misura precauzionale, dal momento che i dati anagrafici praticamente inesistenti erano già di per sé un segno di colpevolezza o quantomeno di presunta ammissione di colpa. Come era possibile che l’unico indizio non fosse altro che il nome? Il passato di un tale personaggio doveva essere senza dubbio losco, altrimenti avrebbe esibito un documento che ne dimostrasse palesemente l’identità.

La curiosità nel piccolo centro montano cresceva di giorno in giorno. Tutti, compresi i bambini, ardevano dal desiderio di scoprire le coordinate della vita di Olimpo, che, a giudicare dall’apparenza, non si poteva definire né vecchio né giovane, né bello né brutto, né alto né basso, né grasso né magro, né simpatico né antipatico, né qualcosa di significante né qualcosa d’insignificante, né pulito e pettinato come un gatto da salotto né sporco e arruffato come un cane randagio.

I montanari di per sé parlano poco e quando è strettamente necessario, ma il fatto stesso di trovarsi dinanzi ad uno che, ancora più taciturno di loro, li indisponeva tremendamente.

” Prima o poi verrà in chiesa… – pensò il parroco, – magari per confessarsi e allora qualcosa dovrà pure dire… “

Lo straniero entrò puntualmente in chiesa una domenica mattina, osservò, scrutò, ascoltò anche la messa nascosto dietro ad un pilastro, ma la sua bocca restò muta come quella di un pesce.

Qualche giorno più tardi gli capitò, sventuratamente, di essere coinvolto in un incidente stradale. Nulla di grave, s’intende, quanto bastò tuttavia per venire trasportato con l’ambulanza al pronto soccorso, da pochi giorni attivato in paese.

– Mi può dare i suoi connotati e la tessera sanitaria ? – chiese garbatamente l’addetta alla ricezione, mentre Olimpo veniva ancora trasportato in barella nell’ambulatorio medico.

– Mi chiamo Olimpo! – rispose l’infortunato, senza aggiungere parola.

– Non mi sa dire altro?

Olimpo fece cenno di no.

– E lei, senza tessera sanitaria, senza carta d’identità, senza sapere neppure il suo cognome, pretenderebbe di essere curato da noi? – aggiunse l’impiegata.- C’è da vergognarsi! Qui si accettano persone in regola con l’anagrafe.. . e poi – proseguì con voce meno animata, – se non sappiamo neppure la sua età, ammesso che occorra una degenza di qualche tempo, come facciamo a destinarlo in città al reparto di geriatria piuttosto che in un altro reparto? Di questi tempi occorre sapere tutto di sé, altrimenti si rischia di venire trattati come nessuno… Mi capisce? Probabilmente dovremo subito dimetterla per mancanza di dati…

– Mi chiamo Olimpo!- ripeté insistentemente quel tale, mentre in lei la stizza saliva tremendamente.

-E allora perché non parla, non dice tutto, non si presenta con un documento d’identità…Le sembra normale questo? – Ma non ottenne risposta.

– Sulla gamba vedo qualche escoriazione…- osservò un dottore, visitandolo. – Sente dolore da qualche parte?

Olimpo fece ancora cenno di no.

– Deve trattarsi di un caso di autismo,- argomentò a questo punto il medico, che non ebbe esitazioni a firmare una carta di dimissione dal Pronto Soccorso di “un tale Olimpo, di cui non si conosce altro che il nome, da sottoporre ad ulteriori visite specialistiche e analisi, trattandosi, dai primi indizi, di un caso di autismo” .

Olimpo se se uscì con le proprie gambe, dirigendosi verso un bar, dove era solito consumare un panino e sorseggiare un bicchiere di vino. Tutti lo squadravano dalla testa ai piedi, come se si trattasse di un fenomeno strano da cui stare al largo.

Da allora scomparvero (almeno temporaneamente) le sue tracce. L’autorità sanitaria, d’accordo con l’autorità comunale, lo fece inutilmente ricercare per alcuni giorni per procedere, in base alle avvisaglie, ad “ulteriori analisi”, ma non addivenne a nulla.

Poi in paese tornò la calma; nessuno ebbe più di che parlare. Tutto finì secondo il solito rituale: pochi battesimi, qualche matrimonio, molti funerali. Ogni cosa schedata, documentata, archiviata regolarmente dal parroco o dal comune.

– Ha per caso conosciuto un certo Olimpo di cui si è detto tutto e il contrario di tutto negli scorsi mesi? – fece l’oste della Piazza del Municipio, una mattina a un tale capitato lì per puro caso. – Mi sono chiesto perché mai non parlasse, ma senza riuscire a trovare una risposta…

– Io no, personalmente, ma ne ho sentito discorrere da altri…- rispose il cliente, che aveva tutta l’aria di uno che sa quello che dice. – Parlava, secondo me, anche troppo…Aveva capito. probabilmente, che ogni parola in più, che avesse aggiunto al suo nome, gli avrebbe fatto perdere qualcosa della sua identità, fino a farlo diventare un povero nessuno come noi. Per questo penso che abbia rinunciato a parlare. Più si parla più si diventa anonimi… Se è vero, infatti, che le parole devono assomigliare a visi di divinità, scolpiti nelle pietre, allora dobbiamo ritenere che i discorsi, che se si moltiplicano senza sosta, finiscono col divenire tritume, sassolini microscopici, sabbia del deserto, da cui occorre proteggersi il viso come i beduini…

Quella sera stessa l’oste, facendo le pulizie, scoprì sul tavolo, dove lo sconosciuto aveva consumato la colazione, un biglietto che annotava: “Mi chiamo Olimpo. Sono tornato per un giorno tra voi per scoprire le reazioni della gente alla mia scomparsa. Tutto come previsto.”

Il padrone del locale rimase, a dir poco interdetto, e da allora nella sua osteria i quattro vecchi frequentatori bevono un bicchiere di vino, si guardano ammutoliti negli occhi e si capiscono perfettamente, senza scambiare alcuna parola.

Sui giornali troviamo scritto come quel paese sia oggi quasi completamente disabitato. Tutti, infatti, o quasi tutti, si sono spostati in città. Solo le rocce continuano caparbiamente ad emettere qualche parola, parole rare, s’intende, aspirate subito dal vento, parole che pochi, pochissimi, riescono a comprendere.

© 2005 P. Campomenosi

Giovanna Sala

Sala Giovanna è nata a Genova, dove risiede, il 24 giugno del 1961. Ha conseguito il diploma di insegnante per la Scuola dell’Infanzia. Coniugata, madre di tre figli, dopo  alcuni percorsi lavorativi nel campo sociale, si è dedicata all’insegnamento in una Scuola dell’Infanzia, dove lavora ormai da vent’anni. Sin  dall’adolescenza si è interessata ai problemi vicini al mondo dei bambini e dei ragazzi, scrivendo per loro racconti, poesie, filastrocche con lo scopo di tradurre nel linguaggio infantile pensieri, sentimenti, situazioni, esperienze che fanno parte anche del mondo degli adulti. Con i suoi alunni ha partecipato per tre anni al concorso “Leggere in libertà”, indetto dal Comune di Genova,  aggiudicandosi due primi e un secondo premio. Fin dalla fondazione fa parte del Gruppo  Associazione Ligure per la Letteratura Giovanile di Chiavari. Negli ultimi anni ha partecipato al Premio Nazionale annuale “Arpalice Cuman Pertile” del Comune di Marostica.

Genere: Racconto

C’era una volta un paese in cui non esistevano i nomi delle cose, o meglio, nessuno aveva mai pensato di chiamare gli oggetti con un nome preciso.
Se qualcuno aveva bisogno di qualcosa diceva:
– Matteo, per favore, portami … la “cosa”.
E quello rispondeva: – Eccoti la “cosa”, papà!.-
Ma in realtà il papà di Matteo non voleva quella “cosa” ma l’altra “cosa” e allora strillava:
– Santa pazienza, Matteo, ti ho detto la “cosa”…, la “cosa”…, la “cosa”!!!
Lo stesso problema sorgeva quando si andava a comperare.
– Vorrei tre etti di “coso” – diceva una signora al negoziante.
– Ecco a lei! – rispondeva quello porgendo un pacchettino.
– Ma cosa ha capito? Io volevo il “coso”…, il “coso”…, il “coso”! – strillava la signora.
– Cara signora – rispondeva seccato il negoziante – se lei si spiegasse, io potrei servirla meglio!
– Ma guarda cosa mi tocca sentire, – ribatteva la signora – non entrerò più in questo posto di maleducati incompetenti!
E così gli abitanti di quel paese erano sempre arrabbiati, diffidenti verso il prossimo e ognuno si abituò ben presto ad arrangiarsi da solo e tutti dimenticarono il significato della parola gentilezza.
Un giorno fortunato passò di lì un venditore ambulante con il suo camioncino.
Era uno di quei venditori che andavano di paese in paese con la sua mercanzia, si fermava in una piazza o in una via e gridava: – Comprate gente,comprate! Vendo tutto, oggetti utili e oggetti inutili! Comprate, gente, comprate!.

Era un omino di bassa statura con un grande sorriso e un modo di fare gentilissimo. Non si sa perché fosse sempre così sorridente… infatti dovunque andasse non faceva molti affari… anzi non vendeva quasi niente …
La sua mercanzia era la più strana del mondo: gambe di seggiole, mangime per formiche, arriccia pelo per le pecore, polvere di mattoni… ma questo omino sorridente passava di paese in paese certo che qualcuno, prima o poi, avrebbe trovato interessanti i suoi prodotti.
Il Sindaco di quel paese venne attirato proprio da quella strana merce.
– Chissà, forse questo signore ha quello che fa per noi, – pensò il Sindaco mentre si avvicinava al camioncino. – Forse riusciremo a risolvere i nostri problemi e a ritrovare un po’ di pace.
– Buongiorno signore, in cosa posso servirla? – disse l’omino con uno dei suoi gentilissimi sorrisi.
– Caro signore, io, che sono il sindaco di questo paese, ho un grave problema da risolvere… – e iniziò a raccontare la storia del suo paese.
Il venditore non si stupì di nulla, capì la gravità della faccenda e disse:
– Forse posso aiutarvi! – con un salto entro nel camioncino e ne uscì con un grosso baule impolverato sulle spalle. Era uno di quei vecchi bauli colorati di verde e dorato che si usavano un tempo per riporvi la biancheria.
Allora, con orgoglio, il venditore spiegò:
– Vede, caro Sindaco, questo baule era di mio nonno e un giorno mi disse che mi sarebbe stato utile. Questo baule contiene i nomi delle cose.
– I nomi delle cose? – chiese il Sindaco.
– Sì, i nomi delle cose – rispose l’omino. – Ogni cosa ha il suo nome, così tutti possono capire di cosa si sta parlando.
Il Sindaco era stupefatto.
– Ma lei è un mago! Che idea geniale! Abbiamo finalmente risolto i nostri problemi! Grazie! Grazie! Mi scusi ma quanto le devo per…
– Oh, no! Niente,niente! – disse il venditore – questo ve lo regalo volentieri! Mi raccomando, un nome sopra ogni cosa e nessuno più litigherà! Ora devo andare, mi attendono… sa, gli affari…
Il Sindaco non finiva più di ringraziare e di salutare con la mano l’omino che con il suo camioncino si allontanava sulla strada. Poi si decise ad aprire il baule. Dentro c’erano centinaia e centinaia di strisce di cuoio con sopra incisi i nomi delle cose “CASA”, “NAVE”, “ALBERO”, “FINESTRA”, “PANE”…c’erano insomma tutte le parole del mondo.
Il Sindaco radunò allora tutti gli abitanti del paese nella piazza principale, spiegò brevemente e alla fine disse:
– Da adesso in poi ogni cosa avrà un nome e sarò io a darglielo!
Seguito dai suoi concittadini andò in ogni angolo, via, piazza, casa, negozio per attaccare un cartellino sopra ad ogni cosa.
Iniziò proprio da lì, dalla piazza. Pescò dal baule una striscia di cuoio e sopra la strada appiccicò la parola “PALLA”, sopra la statua della piazza appiccicò “SALAME” e sulla porta della Chiesa “SCATOLA”. Poi entrò nel negozio di alimentari e sopra al prosciutto attaccò “CHIODO”, sulla mozzarella “SERRATURA” e sul salame “COPERCHIO” e così fece in tutti i negozi, in tutte le case facendo ben attenzione, come aveva detto l’omino, a non dare allo stesso oggetto più di un nome. Il Sindaco e gli abitanti lavorarono così, per tre giorni, insieme, e tutti pensavano che quel baule era straordinario.
Alla fine erano stanchissimi ma soddisfatti. Da quel momento tutto cambiò per la vita del paese e dei suoi abitanti.
Le signore entravano nei negozi e sicure chiedevano:
– Vorrei un etto di serratura e due coperchi.
– Per piacere, mi dà un chilo di sedie rosse? Erano così buone che i miei bambini le hanno mangiate tutte!
Anche nelle case nessuno si arrabbiava più.
– Per favore Matteo, mi porti quella finestra che devo piantare questo prosciutto?
Insomma, da quel giorno tutto era diverso, nessuno più litigava e tutti erano felici perché ognuno aveva imparato a chiamare le cose con il proprio nome.

© G. Sala 2006

Genere: racconto di mare 

C’era una volta un signore che costruiva le barche in riva al mare: le costruiva con i chiodi ed il martello e le pitturava con la vernice ed il pennello, nessuno però le comprava perché non erano moderne e lussuose come quelle costruite nei grandi cantieri.

Un giorno, con qualche avanzo di buon legno, costruì una barca piccola, piccola ma bellissima, la pitturò con cura e la chiamò Turbo.

– Sei proprio bella, sei la migliore tra quelle che ho costruito!

Il tempo passava e la barca era sempre ferma sulla spiaggia. Qualche cliente passava, sì, a volte si fermava, la guardava, la accarezzava e poi se ne andava.

Turbo non era felice, fermo sulla spiaggia, guardava il mare e sospirava, nessuno la portava sul mare. “ Se qualcuno mi portasse nel mare – pensava – potrei assaggiare il sapore del sale, giocare con le onde, dondolare nell’acqua e scoprire, esplorare! Insomma voleva NAVIGARE!”

Ben presto capì che non avrebbe mai lasciato la spiaggia e decise di scappare in una sera tempestosa. Scivolò lungo la sabbia e finalmente arrivò nel mare.

Che bello il fresco dell’acqua, che bello il rumore delle onde!

Ma con quella tempesta e nessuno al timone la povera Turbo veniva sbattuta di qua e di là . Un’onda violenta la scaraventò sugli scogli e sul suo fianco si formò un buco. Iniziò ad entrare acqua, acqua, acqua, acqua… e la povera Turbo si ritrovò sul fondo sabbioso del mare.

– Povera me – diceva – io volevo tanto navigare ed invece sono imprigionata qui sotto.

Intanto i pesci la guardavano incuriositi ed una fila di pesci rossi si divertiva ad entrare ed uscire da quel buco sul fianco.

Arrivò anche un grosso squalo.

– Che bel divertimento! Ora farò un altro buco per passarci dentro anche io! – E aprì la sua bocca piena di denti….Ma Turbo iniziò a piangere:

– Non farmi un altro buco altrimenti non potrò più tornare a galla! – Lo squalo si fermò e si fermarono anche gli altri pesci accanto alla barca.

– Non piangere – disse un grosso polpo – ti aiuteremo noi! Le conchiglie tapperanno i tuoi buchi e, usando la sabbia mista a pietre, i pesci faranno una colonna alta, alta, ti solleveranno per farti tornare a galla!

Allora alcune conchiglie, delicatamente, si posarono sul fianco rotto di Turbo mentre dal fondo del mare, come in un turbine, la sabbia e le pietre si innalzavano sollevando la barca. In un’esplosione di spruzzi fu in superficie e allora la sabbia e le pietre si confusero nelle onde per poi adagiarsi sul fondo.

Il sole era appena spuntato.Un nuovo giorno l’attendeva e Turbo era così felice che continuava a dire:-Grazie!Grazie! Grazie!

Intanto l’uomo, che l’aveva costruita, la cercava guardando il mare dalla spiaggia. Appena la scorse da lontano, la riconobbe. A nuoto la raggiunse e salì.

– Perchè sei scappata? Non stavi bene con me? Ho capito, ti piace navigare. Eh già! Tu sei una barca e sai fare soltanto questo! Cambierò mestiere, tu navigherai e io ti guiderò al timone: staremo sempre nel mare, sempre!

La barca Turbo sorrideva: poteva vedere l’azzurro dell’acqua, gustare il sapore del sale, annusare l’odore del mare, ascoltare il rumore delle onde, sentire il fresco dell’acqua e le carezze del vento…

E dal fondo del mare sentiva i pesci che la salutavano.

© G. Sala 2006

– Sei mai stato in montagna? Vicino ad una montagna alta? Hai mai guardato il cielo? Ecco nel cielo, in montagna le nuvole sono grandissime, soffici e si muovono veloci.

Ma lo sai da dove arrivano le nuvole? Io lo so, perché conosco il signore delle nuvole.

Il signore delle nuvole abita sopra un monte alto, alto, ed ha una bellissima casa con un grande, grande camino dal quale escono tutte le nuvole del mondo.

Tutto il giorno e tutta la notte sopra il fuoco del camino bolle un pentolone di ferro nel quale quel signore mette gli ingredienti per fare le nuvole: acqua di sorgente, polvere di roccia bianca, polvere di roccia nera, e poi da un grosso vaso tutto bianco prende una polvere rosa sottile, sottile che nessuno sa cosa sia e nemmeno a me ha voluto dire il nome.

Il pentolone bolle, bolle e dal camino escono le nuvole.

Allora si siede sopra il monte e scruta il cielo: – Oggi c’è bisogno di pioggia là verso Nord, mentre ad Ovest un po’ di sole non può far male.

Così rientra in casa e aggiunge polvere nera di roccia, poi soffia verso Nord e dal camino escono dei grossi nuvoloni neri carichi di pioggia che volano nel cielo nella direzione giusta.

Poi, soffiando verso Ovest, aggiunge al pentolone polvere di roccia bianca ed escono dal camino delle nuvole leggere ed impalpabili, bianche e soffici come le piume.

Infine, il signore delle nuvole, esce dalla sua casa, si sdraia a pancia in su a guardare il cielo e saluta le sue nuvole con una bella canzone:

“Nuvole grandi rosa e arancioni,

nuvole azzurre e nuvoloni.

Nuvole allegre cavalcano il cielo,

nuvole tristi che portano il gelo.

Nuvole bianche che rigano il blu,

è bello guardarle con il naso all’insù!”.

© G. Sala 2006

Marino Muratore

Marino Muratore nasce a Diano Marina (Imperia) il 18 ottobre del 1957. Dopo aver conseguito nel 1974 la Maturità classica presso il liceo Viesseux di Imperia, ottiene il diploma di Assistente Sociale presso la scuola Regionale Clifos di Genova, discutendo una tesi sulla “Creatività ed immaginazione nelle professioni sociali”. Nel 1997 affina la sua preparazione in campo sociale partecipando al corso per la “Gestione ed Organizzazione dei Servizi sociali” presso la Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Bocconi di Milano. Attualmente è iscritto alla Facoltà universitaria dei Servizi Sociali di Trieste…

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Seguito del racconto I due presidenti di M. Cassini

…… a Geno e Doriana, i due genitori dalla pelle maculata dai colori rosso-blu-cerchiati, stava per nascere un figlio e i quattro nonni erano in ansia per il bimbo in arrivo.

Ma ancora una volta il destino giocò loro un brutto scherzo: la data del parto era stata prevista proprio per il giorno del derby Genoa-Sampdoria, un derby quell’anno particolarmente importante. Infatti le due squadre, dopo decenni di sofferenze, si stavano incredibilmente giocando la conquista del campionato.

I Presidenti delle due società erano in agitazione per due eventi che avvenivano in contemporanea: il primo era la nascita di un futuro nipote che li univa; il secondo era una partita di pallone che li divideva inevitabilmente.

I due nonni camminavano avanti ed indietro nel corridoio della sala d’attesa, discutendo animatamente e si criticavano l’un l’altro per le campagne acquisti sbagliate e per sconfitte lontane nel tempo. Ma nel segreto del cuore, invece, i due anziani erano preoccupati e sospiravano perché la notizia della nascita tardava.

Finalmente un’infermiera si precipitò in corridoio e si avvicinò al padre del bambino.

– E’ nato, – disse.

– E’ nato! – esultò con gioia il padre

– E’ nato! – ripeterono con soddisfazione le nonne.

– E’ nato! – esclamarono i due nonni.

– Si, è nato – confermò l’infermiera.

– E’ nato! – concluse un uomo alto con un lungo camice bianco e con una piccola croce rossa stampata sulla divisa – Sono il ginecologo che ha assistito al parto e vorrei conferire con tutti voi. Mi potete seguire nello studio?. Devo parlarvi di un piccolo problema.

Il padre del neonato sbiancò ma il ginecologo si affrettò ad aggiungere:

– Nulla di grave, stia tranquillo. Nulla di grave, solo una cosa curiosa.

Il padre (conscio della sua pelle e delle macchie rosso-blu-cerchiate) già si immaginò la continuazione della storia. Paventava la possibilità che il neonato avesse rappresentate sulla pancia e sulla schiena anche gli stemmi di tutte le altre squadre della serie A. Più volte nei mesi precedenti si era svegliato nel sonno con quell’incubo.

I nonni, che avevano appena appreso che il risultato della partita di Marassi era ancora sullo 0-0 e quindi non sapevano chi avrebbe vinto il campionato, nonostante due traverse della Sampdoria particolarmente sfortunata, seguirono il medico. Le nonne si tenevano a braccetto.

– L’importante è che non sia malato. In fondo che c’importa delle macchie! – affermarono all’unisono le due donne.

– L’importante è che sia blucerchiato – disse ridendo il presidente della Sampdoria anche se in cuor suo temeva che il piccolo fosse marchiato sulla pelle con i segni della parte avversa.

– Non t’illudere, sicuramente sarà genoano, vedo già il grifone disegnato sul suo cuore – replicò il secondo nonno

– Quanto siete stupidi voi due! – affermarono le due mogli guardando con astio i mariti.

Intanto tutta la famiglia era entrata nello studio medico e ascoltava con ansia il dottore.

– Per favore, ci dica il colore della pelle – domandò il presidente del Genoa.

– Nessun problema di pelle – rassicurò il medico.

I nonni sospirarono: finalmente era conclusa l’agonia, potevano tornare dormire sonni tranquilli

– Ma allora qual è il problema? – supplicò il padre, ancora preoccupato

– Semplicemente ha le dita delle mani lunghe.

– Tutto qui?

– Si, particolarmente lunghe.

Il medico condusse il padre al letto della moglie, che guardava con amore il bambino appoggiato al suo petto. La coppia era felice e si sorrise, osservando gli sforzi del piccolo nel ciucciare il latte materno.

Le dita del neonato erano particolarmente affusolate, affilate, lunghissime. Un fenomeno quasi impossibile in un bambino che aveva un solo giorno di vita!

Il piccolo crebbe sano ma la sua particolare caratteristica si evidenziò ancor di più con la crescita. Dita affusolate, dita lunghe e strette, dita sensibili ad ogni contatto. Dita che sapevano correre, volare sulle cose che toccava.

All’età di tre anni il bimbo cominciò a manifestare doti di pianista prodigio. A sei anni conosceva molto bene la musica classica, amava il blues ed il rock

A dieci anni teneva concerti per il mondo e le sale erano stipate di pubblico che acclamava quel talento precoce capace di suonare con la stessa passione Chopin e Monk, Anastasia e Luciano Berio.

E non solo era bravo con il pianoforte ma il giovane talento aveva particolari capacità anche con la tromba e la chitarra.

Un giorno, durante una sua esibizione a Vienna, avvenne un fatto particolare. Mentre stava interpretando Mozart, sul piano cadde dall’alto una grande bandiera del Genoa. E poco dopo in un altro punto del palco, cadde un vessillo su cui era dipinto il tipico pescatore, universale simbolo della Sampdoria.

I due nonni, ognuno ad insaputa dell’altro, avevano preparato lo scherzo, che aveva l’obiettivo di far ricordare il valore della propria squadra calcistica. I genitori e le nonne del giovane pianista non perdonarono mai quell’impresa di cattivo gusto.

Il bambino, intanto, cresceva gentile, affabile, senza manifestare interesse per il calcio. Le poche domeniche libere era portato, a turno dai due nonni Presidenti, allo stadio. Il piccolo però si annoiava e così trascorreva il tempo a scrivere chiavi di sol sugli spartiti od a comporre melodie per pianoforti accompagnate da tromba e contrabbasso in un tempo da 13/7.

Quando il ragazzo compì tredici anni, la sua stagione musicale prevedeva un’esibizione in ogni domenica. I concerti del sabato sera, invece, stranamente avvenivano sempre in coincidenza con gli anticipi del campionato di calcio del Genoa e Sampdoria.

E così i nonni, che amavano il nipotino dovettero rinunciare ad ogni partita di calcio e le due tifoserie opposte cominciarono a ‘mugugnare’ contro i propri presidenti, ormai demotivati

Solo durante le pause e nei momenti degli applausi, i due presidenti s’informavano tramite cellulare sui risultati delle partite di calcio. Questo durò fino a quando il giovane nipote divenne maggiorenne e fu considerato, meritatamente, il più famoso pianista del mondo.

La cosa incredibile fu che i nonni si erano talmente appassionati alla musica classica che si dimisero dal ruolo di presidenti delle loro squadre e solo alla sera, di fronte al focolare, continuavano a prendersi in giro sui risultati della partite di calcio.

© M.Muratore 2007

Genere:  Animali

La piccola farfalla dalle ali rosse, decise di partire e disse alle sue amiche più grandi: – Devo oltrepassare la collina ed andare in un prato dall’altra parte. Volete venire con me?

– Ma come sei ingenua! Lo sai che non possiamo allontanarci così tanto, viviamo così poco.- rispose una farfalla dalle ali gialle.

– E perché poi andare in un prato lontano, quando è così bello questo?- aggiunse una candida farfallina tutta bianca. Le amiche erano tornate a rincorrersi nel campo di margherite, riposandosi ogni tanto tra il polline. La piccola farfalla rossa, che era da poco nata, invece partì per la lontana cima della collina, là dove si vedevano spuntare gli alti alberi. S’inoltrò così per bui boschi dove raramente incontrava farfalle scure e che non la degnavano di uno sguardo. La piccola, provò a domandare la via alle cugine notturne, ma quelle non rispondevano. E così la neonata dalle ali rosse, punteggiate di blu quasi nero, si perse molte volte. E dopo lunghi circoli viziosi, finiva per tornare ogni volta al medesimo tronco morto.

Un bruco verde, verde pisello, appena venuto alla luce decise di dover abbandonare subito la famiglia. E ciò, nonostante il suo corpo non fosse ancora peloso!

Ridiscese lentamente il melo, smarrendosi tra foglie nuove e vecchie, tra i nodi dei rami. Ma, per fortuna, un alito di vento lo fece cadere a terra, e così iniziò la precoce avventura. Il semplice campo gli parve una foresta con piante inestricabili, sulle quali spesso il bruco s’inerpicava, per subito scoprire che ahimè bisognava subito ridiscendere. Il bruco verde scoprì subito quanti nemici avevano gli indifesi bruchi! Uccelli, ghiri, predatori notturni: tutti parevano impegnati in una caccia ossessiva al bruco. Ma il giovine fu fortunato: ogni volta che stava per essere mangiato, cadeva inconsapevole in un provvidenziale buco nel terreno. E così si salvò.

Nell’aia del paese si era dischiuso da pochi giorni un uovo, sfuggito grazie all’inconsueta furbizia di una gallina, al meticoloso controllo giornaliero del contadino.

Il piccolo pulcino zampettava allegramente intorno alla madre che lo guardava orgoglioso. Arrivò l’anziano agricoltore, con miglio e pane secco per il pollaio. Sorrise appena vide il piccolo pulcino, ma ormai tutte le galline s’erano avventate sul cibo, spingendosi, beccandosi tra loro, urlando il loro coccodè, sollevando minacciosamente le ali per proteggersi e fingere di aggredire. Fu in quel preciso momento che il pulcino scomparve.

La nidiata del pettirosso era stata numerosa e tutti i piccoli avevano già imparato a volare. Incerti i maschi e le femmine, sempre insieme, volteggiavano cercando bruchi ed insetti. Il padre e la madre non li lasciavano mai soli se non quando, a turno, andavano a cercare il cibo per i figli. Quei genitori, che provavano grande amore per ogni nidiata, non s’accorsero quando il figlio più piccolo scomparve, malgrado fosse troppo giovane per sopravvivere al falco, ai gatti, alle volpi, che avrebbero fatto di lui un solo boccone. Per ore intere la madre pettirosso volò alla ricerca dell’ultimo nato ma inutilmente. E così i due genitori cercarono di consolarsi rimanendo vicini agli altri piccoli.

Uno scialle, bianco e azzurro e dalle lunghe frange, era disteso nel verde intenso di un prato. Al centro dello scialle c’era una bambina piccola, piccola piccola, di un mese di vita. La bimba dormiva serena, godeva dell’aria fresca del pomeriggio poco assolato. Le brigole, le croste lattee scomparivano grazie all’aria di campagna, mentre fame e sonno crescevano di giorno in giorno. Pochi centimetri più in là, sulla destra e sulla sinistra, i genitori la guardavano estasiati, commovendosi quando la piccola spalancava le labbra, sorrideva nel sonno, o si rannicchiava dopo essere stata molestata da nuovi rumori. In quei momenti i pugni si stringevano vicino alle orecchie e la bambina regalava un leggero eehh – prolungato, di protesta. Le ginocchia intanto si piegavano leggermente in avanti. Il fastidio durava poco e la bimba tornava distesa, tranquilla nel suo semplice fantasticare.

I genitori si sorrisero, guardandosi negli occhi. Le loro spalle s’avvicinarono, si strinsero teneramente prima di regalarsi leggeri baci sulle labbra, prima di contemplare, abbracciati dolcemente, il paesaggio per cinque minuti, per soli cinque minuti.

Ed in quei cinque minuti avvenne il miracolo. Una piccola farfalla, dalle ali rosse punteggiate di blu quasi nero, volteggiava intorno alla bambina. Si posò allegra e gioiosa sul naso di Martina. Intanto un bruco verde, verde bruco, era salito sullo scialle e si perdeva nei buchi della lana. Alla fine raggiunse l’obiettivo: accarezzò le fini gambotte della bimba. Un pulcino improvvisamente sbucò da un cespuglio e baciò teneramente la mano di Martina, con il suo becco non ancora appuntito. Fu allora che il pettirosso cinguettò allegramente mentre si posava leggero sulla pancia della piccola.

Minuscoli moscerini, microscopiche api, che non desideravano pungere ma solo sfiorare con le ali, e giovani coccinelle trasformarono lo scialle in una nuova Arca di Noè. Il gioioso convivio nasceva dal desiderio di quei piccoli animali appena nati, di festeggiare la cucciola d’uomo, uno schitimiro che era molto più grande di loro. Un istinto, una sensazione, una speranza aveva spinto gli insetti, gli uccelli ed antropoidi, a rischiare la vita per cantare insieme il miracolo dell’esistenza. Era toccato a loro muoversi, perché sapevano che la piccola Martina non poteva ancora farlo.

In quella fiera dei neonati, ogni essere vivente si riconobbe nella diversità e soprattutto nella gioia di avere visto la luce del sole ed i tramonti.

I cinque minuti erano ormai trascorsi. I genitori sorrisero appena videro la piccola farfalla dalle ali rosse, il pettirosso ed il pulcino. Si preoccuparono ingiustamente, quando scoprirono il bruco, le piccole api e gli insetti vicini alla loro prediletta. La festa era finita. La festa era finita ed ognuno doveva rifare la strada di ritorno per tornare alla propria famiglia. Tutti gli animali insieme, prima di partire, crearono un circolo magico: era il saluto per Martina. La bimba a tutti gli animali regalò un sorriso, il dono della vita ormai accomunava le giovani creature.

Chissà poi se il bruco e la farfalla, il pettirosso e la coccinella ritrovarono la loro famiglia? Io credo e spero di sì. So solo che la mamma di Martina raccolse il piccolo pulcino e lo riportò in paese. Nell’aia il pulcino fu affettuosamente rimproverato, con il becco, dalla gallina madre.

© 2005 M. Muratore

Genere: racconto 

C’era una volta un armadio, un armadio triste.

L’armadio piangeva sempre perché era vecchio e vuoto. Le sue porte erano cadenti, le maniglie erano scomparse, i cassetti non si aprivano ed erano bucati in fondo. L’armadio piangeva sempre e solo il lampadario, anch’egli vecchio ed impolverato, cercava di consolarlo:

– Ma sei ancora bello e non importa quanti anni hai. E poi sei stato costruito con il legno pregiato dell’abete che nasce nella montagna delle cascate di pietra.

– Che importa da dove arrivo. – replicava l’armadio – La realtà è che molto tempo fa, giacche da uomo e gonne di seta, pellicce, camicie di lino, si nascondevano dietro le mie grandi porte. E non sai con che gioia vedevo, al mattino, i miei padroni semiaddormentati cercare affrettati i vestiti per andare al lavoro. Io dicevo alla giacca marrone, che era sempre dimenticata, di muoversi un poco, perché il padrone la notasse. Ed ero contento quando lui l’indossava: quel successo era anche merito mio. Ma ancor più bello era, la domenica, osservare i padroni dormire. Più tardi avrebbero scelto con cura i vestiti, senza sbattere i cassetti. Ora invece…- s’interruppe l’armadio che viveva nel mondo senza tempo ed immobile dei ricordi.

Dopo qualche giorno di silenzio l’armadio riprese a bisbigliare:

– I miei ripiani erano colmi di camicie stirate, di calze arrotolate, di mutande profumate, di maglioni di valore. E poi c’erano gli scomparti delle due ante finali. Quella era la parte che mi regalava la più grande gioia. Infatti, dopo anni di solitudine e di vuoto, quei cassetti avevano dato ospitalità a tutine da bambina, disegnate con lune ed orsetti, mutandine ricamate con cuoricini e piccole giraffe, minuscole calzette lavorate a mano. Erano scomparti allegri che davano senso di nuova vita. Anche perché le cose duravano poco, si cambiavano con altre più meravigliose: la bambina cresceva rapidamente – concluse faticosamente l’armadio triste.

– Mi ricordo –sospirò il lampadario.- Forse hai ragione, ora la casa è vuota. E noi due siamo inutili e dimenticati da quando sono partiti i padroni.

All’armadio restava solo un filo rosso nel quarto cassetto della quinta anta sulla sinistra: un filo perso da un vecchio maglione che era rimasto, anni fa, impigliato in una cintura. .

Sembrava una storia finita, la storia di un armadio triste e di un lampadario che voleva consolarlo. Un lampadario che non s’illuminava mai: anche lui era spento da anni.

* * *

Molti chilometri più in là dormiva un falegname. Era un uomo vecchio e stanco.

Da molti anni non lavorava perché nessuno gli ordinava niente. E nonostante ciò le mani gli facevano male. Pochi giorni prima però una coppia ricca aveva ordinato un armadio, un armadio di un abete speciale, che da decenni non viveva più. Non c’erano più alberi nella montagna delle cascate di pietra. Non c’erano più alberi da quando i nuovi abitanti, dai vestiti scuri, s’erano nominati, grazie all’ingenuità di molti, padroni della valle. La coppia, che aveva ordinato un armadio in abete della montagna delle cascate in pietra, non sapeva la fine di quel legno. Ed il falegname non la raccontò.

Dormiva il vecchio falegname, dormiva e sognava stanze buie, castelli diroccati, muri infranti, caverne tristi che s’inabissavano nel centro della terra, gradini ripidi e scivolosi, ricchi di muffe. Ma all’improvviso una luce interruppe il sogno, una luce ed una voce chiara e sicura.

“C’è un filo rosso, un filo rosso che si è perso nel tempo. L’armadio lo puoi ancora costruire, lo puoi riparare. Solo un filo rosso ti può aiutare.”

Il falegname si svegliò sudato.

La magia era iniziata. Nella camera era entrato, intanto, un corvo che aveva in bocca uno scampolo rosso di lana. Attaccato al filo rosso c’era un minuscolo pezzetto di legno d’abete. Il falegname subito riconobbe il legno della montagna della cascata in pietra, e cercò di capire, di interpretare.

L’uomo finalmente si vestì e seguì nella notte l’uccello. Iniziò una lunga ed insidiosa fatica. Il falegname raggiunse infine una casa diroccata, in cima ad una collina, al di là del bosco e del lago. Discese ripide scale buie e scivolose. Riuscì, dopo aver lottato con i rovi, a raggiungere la cucina, poi una stanza. Il falegname si trovò di fronte all’armadio triste, dove il corvo aveva rubato il filo.

L’uomo si concesse pochi istanti di gioia, poi cominciò a lavorare con il martello, la lima, la cartavetro, i chiodi, la colla, lo stucco. Una settimana dopo l’armadio tornò splendente. Nei giorni successivi fu nuovamente riempito di calze da ragazzina e da maglie sportive del fratello, in una nuova casa cittadina.

L’anziano falegname fu presto nuovamente dimenticato. Ma per lui non era importante: il corvo gli faceva scoprire, in case abbandonate, vecchi scaffali, antiche librerie, culle intrecciate da riparare. Il falegname, ogni notte, leggeva contento al chiaro di un vecchio lampadario, il suo nuovo amico.
© M. Muratore 2006

Ada Bottini

Nata e residente a Rapallo. Il lavoro d’insegnante le ha suggerito spunti per scrivere racconti per l’infanzia, dove i dolori e le esperienze difficili della vita hanno trovato largo spazio e dove l’ironia mitiga e sdrammatizza l’amara realtà. Le poesie sono un percorso di autoconoscenza e l’espressione dei vissuti più profondi.

Pubblicazioni:

Un mare… di parole. Edizione Compagnia dei Librai, Genova, 1995; Inventabimbi, Edizione Compagni dei librai, Genova, 1997; Orcobaleno e compagnia bella, Edizione Compagnia dei Librai, Genova, 2003

Premi:

Il Primario, 1° premio Arqua Tetrarca, 1994, sezione racconto; Un mare … di parol,e 1° premio Vivere il mare Santa Margherita Ligure, 1996; Arcobaleno, !° premio Zaccaria Neuroni, 2003; “ La mia guerra, 1° premio Cara Pace ti scrivo, 2005 oltre a varie segnalazioni e premi speciali per le poesie inedite.

Genere: autobiografico

Cinque sensi per vivere una guerra da bambina

Freddo, umidità: così il tatto ha esplorato la guerra. Ricordo il freddo gelido dell’inverno del ’45 su a Ganna in provincia di Varese, dove eravamo sfollate la mamma e io, ospiti di una anziana zia nella sua casa di campagna. Casa senza riscaldamento naturalmente come si usava allora.. Certi giorni si toccarono punte di meno venticinque gradi e l’acqua gelava nei tubi, l’umidità della casa sigillava le porte, cosicché al mattino, per uscire, bisognava accendere un giornale e con questa fiaccola improvvisata sciogliere il ghiaccio, formatosi tra l’uscio e il pavimento, ma io non potevo uscire perché la neve era più alta di me e vi restavo intrappolata. A sera il letto gelido, dove mia madre si coricava prima di me per scaldarlo e poi chiamarmi stretta a lei, finché mi addormentavo intirizzita a felice, mentre lei si rialzava per finire i lavori di cucina. Al mattino lei si svegliava presto per andare a lavorare a Boarezzo, circa tre chilometri di salita, dove si era trasferita la direzione della Ducati di Bologna. Ogni sera, con una collega, scendeva a valle piena di geloni alle mani, ai piedi e persino alle ginocchia; tutto questo solo per vedermi, per non lasciarmi sola con la vecchia zia brontolona. Infatti tutti gli altri impiegati della Ducati erano ospitati nel Grande Albergo di Boarezzo.

Gesti d’amore in un tempo di odio, in cui l’umanità dà il meglio e il peggio di se stessa.

L’umidità. Parlo di umidore umano, quello del sudore, del sangue ma soprattutto quello delle lacrime. Spesso gli adulti in famiglia mi abbracciavano e piangevano. E queste loro lacrime, di cui non capivo l’origine, mi bagnavano le guance, il collo e istintivamente mi irrigidivo, quasi a staccarmi, ma poi intuivo che forse avevano bisogno di me. Ora penso che fosse perché i bambini rappresentano la vita, l’amore, il futuro: tutti valori che la guerra soffoca.

Il gusto: un anno di riso in bianco. Sembrava che la zia non trovasse altro da cucinare a Ganna. Almeno io ricordo così.

All’olfatto si ricollegano i flashback degli incendi, magari lontani che appena intravedevo, con la testa nascosta sulla spalla di mia madre che fuggiva attraversando Milano nell’autunno del ’44.

Più piacevole il ricordo dell’odore appetitoso di salsicce, appese come festoni nella camera di mia nonna a Rapallo nel ’43 ed io stesa nel lettone, convalescente dell’itterizia come si diceva allora e si pensava causata dallo spavento per un bombardamento subìto a Genova

Oggi sappiamo che fu un’epatite e lo spavento ha lasciato altre tracce profonde e nascoste.

I bombardamenti e l’udito. L’urlo della sirena, il sibilo delle bombe, il tonfo, lo scoppio, il crepitare degli incendi e delle mitragliatrici antiaeree e poi il silenzio e gli urli e i lamenti e i pianti.

La vista è l’ala nera dell’aereo che s’inclina, scende in picchiata, sembra entrare dalla finestra e mia madre mi getta sul letto, si butta sopra di me, mentre tutto sembra crollare, ma sono solo i calcinacci del soffitto per noi. E poi il grigio della polvere e del fumo. Rapallo sembra sparita, distrutta. Non si capisce dalla collina dove il bombardamento sia stato più crudele. Lo sapremo ben presto. Mentre il grigio si dirada salgono i pianti delle donne che accompagnano a casa una madre inebetita dal dolore. Era in chiesa con la figlia, tutt’e due inginocchiate allo stesso confessionale, una da una parte, l’altra dall’altra. Cadde una bomba, seppellendo la figlia sotto le macerie, lasciando illesa lei, la madre.

Mia nonna quel giorno 28 luglio 1944 era come sempre alla cassa del suo bar sul lungomare. Non c’erano rifugi vicini e lei si appiattì contro il pilastro del locale, sotto al quadro di San Francesco, con la borsa dell’incasso stretta al seno. La borsa mia nonna non la dimenticava mai.

Anche nelle notti serene, quando Pippetto o Pippo, il pilota insonne, veniva a minacciare le nostre vite. Qualcuno mi strappava dal letto, ma non del tutto dal sonno e, nella confusione, sentivo mia nonna ripetere in milanese: “la bursa e i dané, la bursa e i dané” e poi via, con qualche coperta sui prati, sotto gli alberi di fico, tra i cui rami si intravedevano le stelle. E mentre gli altri parlottavano, qualcuno apriva il termos con il caffè e in quell’aroma pacificamente mi riaddormentavo.
© 2005 A. Bottini

– Oh, finalmente tocca a me. Basta con quel 6 rotondo, sinuoso, tutto moine con la sua smania di andare d’accordo con tutti, senza uno spigolo, uno scontro. Uno che si divide per due, per tre, roba da far accapponare la pelle per il disgusto.

Basta, finito, esaurito, sepolto. Ora è il mio tempo, vedrai che avventure vivrai con me, roba entusiasmante. Ti prometto un anno arroventato. Hai notato che spalle ho, che linea? Certo sono sempre in esercizio tutto spigoli e lame, guai a scontrarmi, ci si può ferire. E poi io…-

– Fermati, datti una calmata! – sbotta Fabio alla candelina della torta di compleanno, che si è presentata con tanto vigore. – Non vorrai farmi litigare con tutti spero, con gli amici, i genitori io vado d’accordo. Con te sembra che debba fare la scherma tutto l’anno, non mi va mica sai?

– Beh, vedo che sei ancora sotto l’influenza del 6 , in fondo se n’è andato da poco, non temere, vedrai che con l’andar del tempo ti abituerai al mio temperamento frizzante e desidererai fare le cose che io ti propongo.

 Intanto il 7 si insedia nella schiena di Fabio, che a quel contatto raddrizza le spalle e solleva il mento. “Bravo, bravo bambino” dice il 7 tra sé. “Ecco un portamento più dignitoso, così ti voglio, fiero, dominante.”

Ogni notte va a visitarlo in sogno e gli propone personaggi coraggiosi: esploratori, pirati, generali alla guida delle truppe, gente che non teme niente e supera ogni ostacolo.

Al mattino Fabio si sente caricato da questi sogni e ha un atteggiamento che irrita il papà.

– Ehi, giovanotto abbassa un po’ la cresta eh! Porta la tua tazza nel lavandino e sbrigati a prepararti che ieri mi hai fatto far tardi al lavoro. –

– Uffa che noia con il lavoro, la scuola, non sapete dire altro voi genitori. Perché non salpiamo con una barca a vela e ci facciamo il giro del mondo? Ci scommetto che io imparerei di più che a scuola e voi anche. E poi staremmo più tempo insieme. – sbuffa Fabio.

Quest’ultima frase colpisce a fondo mamma e papà, che si guardano, sospirano e allargano le braccia come a dire: magari.

La domenica seguente il papà ha organizzato una gita sulla barca a vela di un amico. La vela è una passione che ha coltivato da giovanissimo, poi le circostanze della vita l’hanno costretto a smettere. Dopo due ore di veloci spostamenti da una fiancata all’altra della barca al comando di “cazza la randa, molla il fiocco” , una testata nel boma, la mani scorticate dalle scotte, la faccia arrossata dal vento e dal sole, Fabio è esausto e con lui il suo 7.

– Ho cambiato idea, lasciamo perdere il giro del mondo in barca a vela, mi diverto di più a casa.- borbotta Fabio, quando scendono a terra.

Il fatto è che a casa Fabio quest’anno si è innamorato della Playstation e sceglie sempre i giochi più aggressivi e violenti, se li  fa imprestare dai suoi amici e quando la mamma se ne accorge lo sgrida di brutto. Lui allora alla sera,  nella sua camera in segreto, se la prende con il 7.

– Ehi tu, ma sai che rompi! Stavo meglio quando ero più tranquillo, così prendo sgridate a destra e sinistra e non sono mai contento. Non vedo l’ora che te ne vada.

– Eh bravo te, non sai quello che dici! Ma ti rendi conto che dopo di me arriverà l’8?  Guardalo, basta guardarlo per indovinare che tipo è. Ma cosa vuoi che ti possa offrire lui. Una noia mortale. Tutto tondo e chiuso. Ancora peggio del 6, che almeno era un po’ aperto a qualche novità. Due cerchi chiusi, tutto rotondo, tutto una curva anche lui con la mania delle divisioni, roba da vomitare. Con me c’è più vita!

– Con te c’è fatica e confusione, mi spingi sempre nella direzione sbagliata.

– Eh, no carino! Sei tu che non sai scegliere. Io ti propongo vivacità e curiosità, così va presa la vita con vivacità e curiosità, sono due chiavi che ti aprono tante porte. Con me puoi essere Robin Hood o San Francesco, tanto per fare un esempio, poi sei tu che scegli, basta che ci sia un po’ di novità, di trasgressione, non sempre la solita piatta, pigra giornata dominata dalla televisione. Chiaro?

-Sì, è chiaro, chiaro, anche se non capisco perché devo sempre essere qualcun altro.

– No, non devi essere qualcun altro, sono solo esempi di persone che hanno fatto qualcosa di nuovo. Tu scegli la tua strada, ma che sia un po’ frizzantina, mi raccomando, se no mi affloscio anch’io. Pensa che dopo l’8, viene il 9, anche lui lo vedi è un sei con la testa su, sembra un serpentello avvolto su se stesso, ma pronto ad attaccare, non t’aspettare granché da lui, forse un po’ di veleno e poi…poi ci sarà il 10 bilanciato, un po’ di vita e una bella panciata di noia. Devi aspettare l’11 per  riassaggiare il pepe, capito Fabio?

Ma Fabio si è già addormentato. Il 7 lo guarda un po’ deluso, poi si riprende:

– Buona notte amico mio,  a domani, si ripete la lezione, io non mollo per un anno intero.”

                                                                                                 © 2005  A.Bottini

Sono il numero uno. Detto questo potrei già smetterla di parlare di me, perché quelle quattro parole racchiudono già tutta la mia fama, la mia forza, la mia potenza. Quattro parole e uno immagina il meglio che possa esserci nello sport, nella moda, nello spettacolo, nella produzione industriale, nella cultura, in tutto insomma.

Anche la mia forma suggerisce la mia superiorità rispetto a tutti gli altri numeri miei colleghi.

Dritto, col naso in avanti a fiutare la direzione giusta, semplice, lineare, senza arzigogoli che confondono le idee, l’essenzialità è la mia essenza, il mio carisma. Il primo di una fila infinita di numeri che mi stanno tutti dietro però.

Mi fa ridere quando qualcuno insinua che gli altri numeri valgono più di me, ma siate onesti, dite la verità, voi, nel vostro gruppo, in famiglia, a scuola, sul lavoro preferite essere il numero uno o il due, il tre, il nove o che so io, anonimi, senza costrutto, si confondono uno con l’altro, tanto non vogliono più dire niente dopo di me.

Mi do delle arie? Può darsi, ma voi non immaginate che cosa voglia dire l’inizio, sentirsi il principio, non solo il migliore, come ormai è assodato nel linguaggio comune, ma proprio l’inizio di una serie di quantità, di avvenimenti, di fatti, di persone, di tutto ciò che è quantificabile, è inebriante: io avvio e traguardo, io invidiato, osannato, ammirato, io insostituibile.

Sì, lo so, non sono un tipo tanto disponibile: non sono facilmente divisibile, se moltiplico lascio le quantità invariate, ma è logico, cosa mi disturbano a fare gli altri, che se l’arrangino tra loro, io.. sto bene solo con me stesso, mi basto, la compagnia non fa per me, perché mischiarmi con quelle mezze calzette che sono gli altri numeri, pomposi e insignificanti. Beh, insomma detta così sembra che ci sia del disprezzo nel mio discorso, in realtà no, non li disprezzo, mi piace anche guidarli nella direzione giusta quando stanno dietro di me, ma non mi interessano, non ci trovo niente di significativo in loro, appunto stanno bene dietro di me. Ho già tanto da riflettere sulla mia forma, sulla mia fortuna, sulla mia dignità, amo analizzarmi trovo sempre motivi di gratificazione e orgoglio.

So che anche gli altri, se li farete parlare, avranno i loro motivi di autostima e di vanto, ma non sono neppure curioso di saperli, perché… per quanto si arrampichino sugli specchi, non troveranno mai modo di superarmi.

Ecco questo è l’aspetto un po’ limitante della mia situazione: il sapersi sempre in vetta, insuperabile toglie un po’ di soddisfazione alla gara, al confronto. Arrivano momenti nei quali non te la godi neanche più, perché sai che la situazione è così stabile, incontrovertibile e allora non riesci a godere al massimo della tua posizione: non puoi apprezzare appieno un bicchiere d’acqua se non hai avuto sete, di una coperta, se non hai avuto freddo. Capite quello che voglio dire? Però non chiedetemi di cambiare posizione, non lo farei per niente al mondo. Che umiliazione, non posso pensarci, mi vengono i brividi, come avessi la febbre all’idea di retrocedere nella scala dei valori, di cambiare la mia forma così elegante e smilza, di rappresentare altre quantità che non siano l’essenziale, di mischiarmi nel mucchio. Che orrore! Non voglio immaginare più, neanche per un attimo, una situazione simile.

Un bel respiro profondo, non è successo niente, solo fantasia.

© 2005 Ada Bottini

Salve sono lo zero! Perfetto vero? Avete notato la mia forma? Insuperabile. Liscia, circolare, ciclica, senza spigoli, senza ostacoli, una dolce curva continua che ti accompagna nell’andare. Sembra nata per farsi accarezzare. E l’interno poi… Magnifico, uno spazio vuoto, libero da usare secondo le tue esigenze o desideri del momento oppure lo puoi riempire come vuoi: di acqua azzurra e sarà una piscina dove pigramente nuotare, di erba verde e sarà un prato dove giocare, può diventare una laguna circondata da un atollo, una lente per scrutare le stelle e altro, altro, altro ancora.

Qualcuno dice che non valgo niente, uno zero appunto. Superficiali! Io sono un confine: sopra e sotto lo zero, ve ne accorgerete andando a sciare, sono il punto in cui l’acqua si trasforma e gela. Che meraviglia un lago su cui pattinare, che pericolo una strada su cui scivolare. Vi rendete conto del mio potere? Ma non finisce mica qui. Tutti gli scettici dovranno ricredersi, se solo si fermano a rifletterci un po’ su.

Potenzio tutti gli altri numeri. L’1 con me diventa 10, il 10 diventa 100 e avanti di seguito finché ne avrete voglia.

Una volta mi sono tolto un sassolino dalla scarpa. Si fa per dire, vero, io non ho scarpe perché rotolo senza attrito su me stesso, sono quasi il moto continuo. Bene dicevo, c’era un signore che spesso per offendere qualcuno gli diceva: “Sei uno zero”. Quando giudicava qualcosa da comprare se ne usciva con un “Vale zero” e lasciava lì. Ci sono abituato a dir la verità a questi modi di dire, ma lui esagerava: lo diceva troppo spesso e con troppo disprezzo Un giorno mi sono immerso nella scolorina di un mio giovane amico che la usa a scuola, perché è distratto e sbaglia spesso e sono scomparso. Svelto svelto sono saltato sulle banconote del signore che stava trattando un acquisto importante e ho cancellato tutti gli zeri finali dai soldi di quell’antipatico sbruffone che…, mi sbudello ancora dalle risa a ripensarci, si è trovato con tutti i suoi averi svalutati e non ha potuto concludere l’affare. Che soddisfazione! Lui è rimasto lì con tanto di naso, una faccia intontita a guardarsi intorno cercando di capire se era lui che non sapeva più contare oppure se c’era qualche nemico intorno che gli faceva il malocchio. Guardava i soldi e non li riconosceva, li ricontava, ma non corrispondevano più a quello che aveva prima, ci ha pensato per delle ore, ma non l’ha raccontato a nessuno per paura di essere preso in giro o non creduto, insomma di fare la figura dello scemo. Non ha capito niente di quello che era successo, ma ho notato che da allora in poi non ha più nominato lo zero a casaccio come faceva prima, ha una specie di timore reverenziale verso di me anche se non ne conosce il motivo.

Ero così felice che mi sono gonfiato un po’ troppo e ho rischiato di sparire per davvero, perché la mia circonferenza non ce la faceva più a trattenere tutte le arie che mi davo, allora mi sono dato una regolata e sono rientrato nei ranghi. Però la soddisfazione di quell’azione la rivivo ancora adesso quando ci penso.

Un’altra volta ho azzerato uno spilungone borioso. Era alto uno e novanta e si dava un sacco d’arie. Se incontrava un bassottello lo derideva con frasi tipo: “Ti piace la puzza dei miei piedi?” oppure “Nanetto, come sta Biancaneve?” o magari “Ti fanno lo sconto sui pantaloni?” e così di seguito. Un giorno, non sapevo neppure io come sarebbe finita, sono saltato nella sua carta d’identità e ho spostato lo zero dall’indicazione della statura. Lì per lì pensavo solo di fargli uno scherzo burocratico, cioè falsificare un suo documento, invece…ragazzi, voi non ci crederete, ma è successo davvero, lui ha incominciato a rimpicciolirsi, a rattrappirsi, tutto a pieghe come una fisarmonica, una scena comica da spanciarsi dal ridere, peccato che c’ero solo io presente con una ragazzina che si è spaventata ed è scappata via. Era come se avesse un enorme peso sulla testa, un peso che lo schiacciava giù verso terra fino alla statura esatta di un metro e zero nove centimetri, neanche un metro e dieci. Ma ci pensate. Il borioso era lì con i pantaloni afflosciati sui piedi, le maniche della felpa che gli pendevano fino al suolo, la faccia terrea lo sguardo perso. Io ho riso fino alle lacrime, poi non ho voluto calcare la mano e sono ritornato al mio posto sulla carta d’identità. Statura: 1,90 e lui a poco a poco è ritornato ad allungarsi, ma la faccia non era cambiata, aveva il terrore dipinto sul viso.

Non l’ho mai più sentito schernire un ragazzino piccolo di statura.

Se vi sentite dire: “Sei uno zero!” non offendetevi per carità, ma gonfiatevi d’orgoglio, sapendo quante realtà potreste trasformare, se veramente voi foste uno zero. Sorridete a chi ve lo dice e ringraziate, ma non state a spiegare tutta la storia, non ne vale la pena, se non se ne sono ancora accorti, peggio per loro.

© 2005 A. Bottini

Buongiorno! Uh, lasciatemi un po’ stiracchiare dopo un buon sonno ho bisogno di allungare il mio collo, girare a destra e sinistra la mia testa, non vorrei mai assumere un brutto portamento afflosciato o contratto visto che la natura o la matematica mi hanno dotato di una figura così fiera ed elegante. Sì, io mi considero un’opera d’arte, il capolavoro dei numeri, al di là del mio valore e della mia simbologia, proprio solo per il mio aspetto. Ancora non so chi mi ha inventato così bello, chi ha deciso la mia forma, gli Indiani? Gli Arabi? Non credo perché all’inizio assomigliavo più al sette. Forse Gerberto di Aurillac o meglio ancora quella buon’anima di Leonardo Fibonacci da Pisa, chiunque sia stato gliene sono grato in eterno. Chi sono? Ma il numero due naturalmente, sono sicuro che l’avevate già capito dalla prima riga. Sì siete intelligenti voi, ma sono anche inequivocabile io, unico, se si tratta di bellezza, portamento ed eleganza, non mi stanco di ripeterlo e so che non posso essere contraddetto.

Guardatemi, sembro un cigno, eretto, ma flessibile, sono stabile sul mio piedestallo, ma suggerisco il movimento con il mio collo voluttuoso che dipinge un percorso, prima a destra, poi curva a sinistra per avvolgersi in un ricciolo essenziale che non dà atto ad equivoci di leziosità.

Naturalmente parlo della mia forma, quando sono scritto a mano. Odio quegli orologi moderni con i numeri digitali. Tutti spezzettati in segmenti, non mi ci riconosco, mi rifiuto di guardarmi in quelle insegne che indicano la temperatura, odiose anche loro, anzi vi confido un segreto non credeteci troppo all’esattezza di quegli apparecchi digitali, perché sto tentando di boicottarli, di cambiare l’ora o la temperatura per non apparire quando tocca a me, non ci sono ancora riuscito, ma sono vicino al traguardo, quindi…

Sapete qual è il mio sogno? Di essere sempre scritto con il pennello, di essere dipinto, sì ho bisogno di artisti, di pittori, che possano comprendere appieno la bellezza della mia forma, l’essenzialità del mio segno. Vi sembro vanitoso? No, semplicemente non soffro di falsa modestia, sapete quelli che si criticano per ricevere complimenti e conferme sul loro valore. Io no, so quanto valgo e lo affermo, ne sono orgoglioso.

Mi fanno ridere quelli che disprezzano il mio valore, soprattutto quando ho la funzione ordinale. Si sente di un corridore o di chiunque partecipi ad una gara. – Oh, quello è l’eterno secondo! – Eh, allora? Che vuol dire, meglio secondo che terzo o ultimo.! Sono persone quelle che non hanno mai riflettuto sul reale valore che io esprimo. Io sono il DUE la coppia, vi rendete conto, l’origine della vita. Da me nasce la vita, ci vogliono due persone perché nasca un nuovo essere. Vi sembra poco? Che dico, non solo due persone, due fiori, due alberi, due animali. Senza di me il deserto, il vuoto, il nulla. Ecco già questo basterebbe a farmi il re dei numeri. Tutti gli altri non esistono senza di me. Puoi contare milioni o trilioni, ma tutto inizia da me. Oh, mi inebrio quando ci penso, ma non voglio soffermarmi troppo altrimenti rischio davvero la superbia e non è bello. Anzi vedete dal mio portamento che sono quasi umile, con il capo chino davanti altri, forse perché preferisco contemplarmi che guardarmi attorno, ma questa è una malignità, l’ho sentita dire dall’uno. Certo brutto presuntuoso, io preferisco ammirami che guardare te ritto, duro, rigido davanti a me, se non lo capisci è solo perché sei un maledetto presuntuoso. Il primo della fila, ma se non lo sapessi vali la metà di me e già questo dovrebbe bastare a farti chinare un po’ la schiena. Basta via non ho voglia di litigare, non ne vale la pena. Io sono soddisfatto di me stesso e non invidio nessuno, questo è il traguardo di una vita e io l’ho raggiunto. Amen.

© 2005 A. Bottini

Mi ricordo che quando ero piccolo nonna Irma era rotonda: non alta, grassottella, allegra, liscia. Se mi prendeva in braccio mi pareva di sprofondare in un materasso di piume caldo e rassicurante.

Ora siamo quasi alte uguali con la differenza che le mie braccia sono più lunghe e elastiche e arrivo a prendere le cose in alto dove lei non arriva più.

– Nonna – le dico – vedi arrivo più in alto di te. – e lei, sorridendo rassegnata mi risponde:

– Così deve essere, noi vecchi diventiamo più piccoli e voi piccoli crescete. Così deve essere.

– Nonna, perché non sei più grassa come prima.

– Perché devo partire per un lungo viaggio e per viaggiare bene bisogna alleggerirsi

– Un lungo viaggio? – esclamo io sorpreso – ma se non ti sei mai mossa da casa!

In verità la nonna si è mossa da casa. Quando era grassottella e allegra stava in una casa grande, che ha lasciato a noi. Lei ora abita in un minuscolo appartamento.

– Nonna – le chiedo all’improvviso – perché hai cambiato casa?

– Non sei contento della tua nuova casa ? – mi chiede lei di rimando

– Io si e tu?

– E’ giusto così. Una casa grande per una persona sola. Che me ne faccio? Bisogna alleggerirsi da vecchi. Delle cose, dei chili. E’ importante tenere i ricordi e basta. Per viaggiare bisogna essere leggeri – conclude.

– Nonna. mi porti con te in viaggio?-

A questo punto la nonna mi sembra spaventata.

– Proprio no. Questo è un viaggio che devo fare da sola.

– Devi o vuoi ? – chiedo io, ribaltando una catena di parole, che mi diceva sempre lei. “Se vuoi, puoi, se puoi, devi”.

Lei capisce il trucco e mi risponde al solito modo.

– Se vuoi, puoi, se puoi, devi. Vuoi e devi sono la stessa cosa.

– No, nonna – rispondo io – non è vero.

Incomincio a preoccuparmi, è come se vedessi la nonna per la prima volta dopo mesi.

É tutta ingrigita, arida, spenta e poi non mi risponde chiaramente come ha sempre fatto..

– Nonna, che viaggio è questo che bisogna partire leggeri? Non andrai mica a piedi, come facevamo quando ero piccolo e non mi lasciavi mai portare giocattoli e cocacola “Perché pesano” , mi dicevi.

– Non so come partirò, né quando. Per tutta la vita mi sono preparata a questo viaggio. So che arriverò in un luogo appagante, ma non so come ci arriverò. So che bisogna arrivarci da soli, quasi nudi, non c’è bisogno di valigie per questo viaggio.

– Mi fa paura quello che dici, nonna. – dico io con le lacrime agli occhi.

– Io non ho paura, sono pronta. Te l’ho detto, Daniele, è tutta la vita che preparo il viaggio. Ora ci sei tu al mio posto. Hai imparato tutte le cose che volevo insegnarti, l’ultima è questa: tutti noi, ad un certo punto, dobbiamo partire per un viaggio solitario. Può essere il più bel viaggio della vita se ti sei preparato bene. Io credo di averlo fatto e ora sono pronta a partire. Non so quando, ma quando sarà, sarà il momento giusto per me. Vedi come sono diventata leggera? Ho dato tutto quello che potevo. Non ho pesi da portare, sta tranquillo. E’ giusto così.

– Nonna, prima di partire mi fai una crostata?

– Volentieri, aiutami anche tu, così impari la ricetta.- dice la nonna, mentre pesa la farina e lo zucchero. – e quando la farai ti ricorderai di me.

– Perché tu non la vuoi più fare?

– Non ci sarò, Daniele.

– Ma quanto dura questo benedetto e misterioso viaggio?

– Per sempre.

– Per sempre?- chiedo incredulo – Ci vuoi lasciare?

– Devo

– Allora vuoi. – dico io risentito.

Lei mi abbraccia e sorride.

– Ascolta, non è che dopo che sarò partita non esisterò più, vivrò in un’altra dimensione, ma non ti perderò d’occhio. Tu però non potrai vedermi, finché non verrà anche per te l’ora di partire. Allora ci ritroveremo. Nel frattempo se tu ti ricorderai di me, se non sarai troppo impegnato con le tue attività, io vivrò nel tuo ricordo. Tu racconterai di me, delle mie manie, delle mie ricette ai tuoi amici, alla tua donna e in quei momenti io vivrò anche in questo mondo.

– D’accordo?

– D’accordo. Mi sa che questa crostata mi andrà di traverso, nonna, con tutti questi discorsi.

– No, godiamocela. E’ buonissima.

© 2005 A. Bottini

Torniamo indietro nel tempo.

Indietro, indietro, indietro a quando non esistevano gli orologi, perché non c’era nessuno a contare il tempo, a quando non c’erano automobili, perché non c’era nessuno che le guidasse.

A quando sulla Terra non c’erano né uomini, né donne, né bambini. C’erano solo gli animali in mare, in cielo e in terra.

Le giraffe allora assomigliavano molto ai cavalli e alle zebre. Tutti pascolavano quietamente nelle vaste praterie, l’erba era abbondante. L’ombra un po’ meno. Forse le zebre amavano riposarsi sotto le palme, infatti si sono abbronzate a strisce. Le giraffe invece stavano dietro ai cespugli ed eccole tutte maculate. Ancora però con il collo corto, finché una bella giraffa pacioccona e pigra non cambiò abitudini.

Alla mattina le piaceva dormire e quando si svegliava l’erba buona era finita. Se l’erano già mangiata tutta le sue sorelle.

I primi giorni provò a cercare pascoli più lontani, ma fu scacciata in malo modo dai legittimi occupanti.

Allora per non morire di fame cambiò menù: cominciò a brucare le foglie dei cespugli e degli alberelli. Il sapore era buono, ma gli alberi scarseggiavano e, per riempirsi la pancia, bisognava brucare sempre più in alto.

Fu così che il suo collo cominciò ad allungarsi giorno dopo giorno.

Piaceva poco, a quei tempi, la giraffa con il collo lungo e la nostra amica faticò non poco a trovare marito, ma ci riuscì anche lei . Era tanto simpatica e originale che il marito la compiaceva in tutto e per tutto.

Anche lui incominciò a mangiare le foglie degli alberi e anche il suo collo a poco a poco si allungò.

Da loro nacquero sei giraffe con il collo lungo. Dovevano essere molto forti e sane, infatti l’hanno avuta vinta loro.

Oggi tutte le giraffe hanno il collo lungo lungo.

© 2005 A. Bottini


Salve, sono Francesca, Francesca Sarti, terza media, Scuola Statale Giustiniani Milano.

Cosa ho da dire di così importante da essermi appropriata di un foglio bianco e di tentare di riempirlo tutto con le mie idee?

La base è che non so usare il plurale o meglio non so generalizzare.

Ogni volta che sento parlare di categorie umane al plurale mi viene l’orticaria. Mi prende un senso di fastidio, di ripudio, di ribellione un po’ sproporzionato al caso, lo ammetto, ma è più forte di me, non ascolto più e sfoglio il mio archivio mentale che mi propone decine e decine di individui che non riesco a mettere nell’insieme di cui si parla.

Ragazzi, ad esempio: uno incomincia a dire:“i ragazzi sono così, sono cosà…”, ma che forzature sono. Non siamo mica prodotti industriali stampati in serie.

Ci sono io, Francesca, religiosa, osservante, diligente, legata alla mia famiglia, in lotta con l’invidia e la pigrizia che sento crescere in me come erbacce, per le quali non ho ancora trovato il diserbante adatto. E poi c’è Massimo bestemmiatore, fumatore, impertinente, che rispetta e ama solo sua nonna e nessun’altro. E Tiziana ordinata, sempre tirata a lucido, interessata solo alle marche: dello zaino, dell’astuccio, della felpa, non sa parlare d’altro, conosce tutte le pubblicità televisive e giornalistiche, creme, trucchi e modelli di scarpe. Un’ossessione.

E sento dire i ragazzi, come una categoria monolitica. Cosa abbiamo in comune noi tre ad esempio? Solo l’età secondo me.

La stessa cosa succede con i professori. C’è chi li osanna, chi li rispetta, chi li denigra. Io sono per distinguere di volta in volta.

C’è quello preparato che conosce bene la sua materia, ma non sa insegnarla, non ti coinvolge. Il suo mito è il programma. Parte con la sua scaletta e la rispetta nei dettagli, qualsiasi cosa succeda in classe o fuori, lui va avanti e non si accorge se la truppa lo segue. Di solito arriva da solo al traguardo. E’ come partecipare ad un’escursione in montagna con una guida, che ti illustra il percorso e decide le tappe. Fatto questo la guida parte e non si volta più indietro. Non si accorge se uno ha preso una storta e fatica ad andare avanti, se un altro distratto ha seguito una deviazione, se qualcuno ha sete e cerca una sorgente, se molti sono affaticati e avrebbero bisogno di riposare, no lui prosegue con il suo programma e arrivato in vetta si trova …come Alberto Sordi in “Tutti a Casa”, solo, soletto, senza seguaci ma non importa: il tragitto l’ha fatto, il suo lavoro l’ha compiuto, o almeno così crede.

C’è il Professore che non conosce bene la sua materia e quando spiega sembra che ripeta una lezione studiata male, detesta le domande e i chiarimenti, meglio non interrompere perché diventa isterico, di solito noi ci facciamo i fatti nostri: giochi, altri compiti, chiacchiere e la sua materia non la sapremo mai.

Poi c’è quello stufo, che si sente sottopagato, sottovalutato è carico di rancore verso la società, lo stato, gli studenti, spesso urla, offende, insegna poco e perde troppo spesso la pazienza, arrivando anche a buttare gli zaini giù dal terzo piano. Da quello ci salva solo la pensione. Ma c’è anche la PROF. tutta maiuscola, perché se lo merita, che ama la scuola, che ama i ragazzi, comunque siano, che ama la sua materia, che ti porta in un viaggio di piacere, di scoperte, senti che ti fa crescere, faticare, ma non ti molla. Noi ne abbiamo una così, con lei il tempo passa troppo in fretta, peccato che si sia ammalata seriamente, ed ora ci manca, ma confidiamo che torni presto la nostra Mary Poppins, che venga a raccogliere i frutti che ha seminato.

Ora, se nell’ambiente che conosco, trovo le categorie così differenziate, deduco che lo stesso avvenga quando mi parlano di cristiani, mussulmani, ebrei, tedeschi, americani e così via, credo e spero che all’interno di questi gruppi vivano individui diversissimi tra loro, come io sono diversa da Massimo e da Tiziana.

Forse mi sbaglio e crescendo, parlerò anch’io al plurale. L’età non si sa mai che scherzi fa. Amen.

© 2005 A. Bottini

Era quello un tempo di grandi migrazioni. Giovani, a volte famiglie intere, raramente vecchi si spostavano da sud a nord da est a ovest in cerca di pace e lavoro.
Abbandonavano villaggi sempre più poveri, accerchiati dalla siccità, o grandi città rese invivibili dalla guerra civile e dalla criminalità.
La loro meta era l’Europa: vecchia, ricca ed egoista come certe signore perbene. Lì, alcuni realizzavano le loro speranze, altri invece trovavano posto solo sugli scalini delle chiese, nelle sale d’aspetto delle stazioni o lungo le strade a vivere una miseria ancora più crudele di quella che avevano lasciato, perché aggravata dalla nostalgia.
Anche l’Italia aveva il suo bel numero di immigrati regolari e clandestini. Tra questi ultimi c’era Omar, un vecchio gigante dalla pelle scura e i capelli bianchi e crespi come lana di pecorella.
Omar era uno dei rarissimi immigrati anziani. Aveva lasciato il suo paese come in trance. Ferito e incosciente era stato raccolto da un’ambulanza vicino alla sua capanna in fiamme. La tribù rivale, dopo anni di tregua, aveva assalito di notte il villaggio e massacrato tutti gli abitanti, compresa la famiglia di Omar: una moglie e sette figli. Curato in un ospedale della capitale del suo paese, aveva ripreso a poco a poco le forze del corpo, ma lo spirito era irrimediabilmente malato. Sentiva che, se fosse rimasto, la sua mente e le sue mani non avrebbero avuto altra occupazione che uccidere.
Appena fu in grado di muoversi si imbarcò su un peschereccio, anche se prima di allora non aveva mai visto il mare.
Comandante e marinai erano italiani, il resto dell’equipaggio pescatori, addetti alla cucina e alle pulizie erano africani.
Il peschereccio restava sei mesi nei mari d’Africa per pescare, lavorare e surgelare il pesce, poi l’equipaggio africano veniva licenziato e gli italiani rientravano in patria per vendere il prodotto.
Omar, a bordo, era benvoluto da tutti e, quando finì il periodo della pesca, il comandante, che conosceva la sua storia, gli propose di venire in Italia : gli avrebbe trovato qualche sistemazione regolare.
Omar accettò anche se gli pareva che più niente nella vita fosse importante per lui.
Si sbagliava.
Quando, a poche ore dall’arrivo nel porto di Genova, il comandante morì d’infarto, Omar fu scosso di nuovo dal dolore e dalla paura. Si sentì perduto, infastidito da quel suo corpo ingombrante e sano, che lo costringeva ad affrontare la vita e a trovare soluzioni.
I marinai non sapevano come risolvere la questione di un clandestino a bordo e, in prossimità dell’arrivo, gli consigliarono di buttarsi in mare e di raggiungere la riva a nuoto.
– Poi qualche santo provvederà – conclusero.
Omar non era un nuotatore esperto. Erano passati anni da quando aveva preso confidenza con l’acqua nel fiume Niger. Allora bambino non temeva niente e con i coetanei si buttava nelle anse del fiume, dove l’acqua era più calma. Lì aveva imparato a galleggiare e a tornare a riva al richiamo fermo degli adulti. Talvolta aveva dovuto impegnarsi contro correnti insidiose, ma non aveva mai avuto paura dell’acqua. Anche ora non temeva il mare e si buttò senza esitazione.
Era l’inizio del mese di ottobre, l’acqua ancora tiepida per il sole estivo, non fu un grande ostacolo per Omar, che raggiunse la costa in un posto tranquillo, ma non così isolato da permettergli di restare invisibile ad un pescatore appollaiato su uno scoglio.
– Ehi tu, da dove sbuchi? Hai bisogno d’aiuto?- gli gridò il pescatore.
Omar nei mesi passati sul peschereccio aveva imparato un po’ d’italiano: capiva bene, ma parlava stentatamente.
– Io caldo, io bagno, io perso vestiti e documenti. Ladro rubati.- rispose mentre si scrollava l’acqua di dosso.
Il pescatore finse di credere alla sua storia e, siccome era un tipo curioso e buono, gli propose:- Andiamo va’, tanto non prendo niente. Vieni a casa mia: i vestiti e un piatto di pasta te li posso offrire. Per i documenti e il lavoro dovrai arrangiarti. –
Mario, il pescatore, era in realtà un ferroviere ed abitava, con la famiglia, in una casetta circondata da un minuscolo giardino alla periferia di una cittadina della riviera ligure.

Aveva ereditato la casa da suo padre, morto da alcuni anni. In soffitta Mario conservava ancora un baule con gli indumenti del suo papà, che era stato un uomo imponente, alto, grosso e severo. Nella vita era stato direttore delle scuole elementari: poco stipendio, ma necessità di essere sempre ben vestito. Così i suoi abiti erano un po’ fuori moda e molto formali: giacca, panciotto, camicie bianche, scarpe stringate, buone per tutte le stagioni.

Omar era alto, ma smagrito. Il padre di Mario doveva essere stato un vero gigante: alto almeno un metro e novantasei, scarpe quarantasei, taglia cinquantasei. Infatti quando Omar fu rivestito di tutto punto, pareva uno spaventapasseri elegante e un po’ liso. Puzzava di naftalina da togliere il respiro. La giacca che gli spioveva sulle mani, i pantaloni arricciati in vita dalla cintura, le scarpe due numeri più grandi del suo, insomma il contrasto tra la pretesa eleganza dell’abito e la misura sbagliata lo rendeva estremamente buffo: quando si muoveva pareva un clown. Forse per questo il bambino di Mario, che fino allora lo aveva guardato con diffidenza, accovacciato in un angolo della cucina, si alzò, gli porse un piffero e gli disse. – Suona. -.
A questo punto scoppiò il finimondo. La nonna scattò, afferrò il piffero a metà strada tra Marco ed Omar ed esclamò:- No, no. E’ una cosa che si mette in bocca, non si sa mai. Lui potrebbe essere malato!
Il nonno imbarazzato sgridò il nipote:- Non disturbare il signore, che è stanco.-
Il cane di casa, distolto dal suo sonno, incominciò ad abbaiare. La madre di Marco, incapace di gestire la situazione, sembrava una statua di cera animata da un meccanismo ritmico, che le faceva volgere il capo e le mani un po’ a destra un po’ a sinistra, senza sapere cosa fare.
Il padre di Marco si afflosciò sulla sedia col capo chino e la testa tra le mani, mentre Marco, contraddetto, scoppiava in un pianto isterico, irrigidendo tutto il corpo e sfregando i piedi uno contro l’altro fino a farsi male.
Omar si guardò intorno sbarrando gli occhi per lo stupore e poi, vedendo che nessuno interveniva prese Marco per le caviglie, una mano dietro la schiena, lo issò in alto e disse: – Oh tu bacchetta , oplà ! – e lo lanciò in alto senza fatica.
Marco impaurito dal lancio nel vuoto rimase senza respiro e smise di gridare.
Omar lo prese al volo e, con un sorriso divertito gli chiese.- Ancora?
Marco con le mani aggrappate alle spalle del gigante nero, gli occhi sbarrati per lo stupore e la voce strozzata esclamò: – Sì, ancora ancora.- – Allora staccati, si vola da soli! – gli rispose Omar.
Il bambino viene lanciato in aria due, tre volte. Allarga le braccia e trattiene il respiro, alla fine abbraccia il vecchio profugo con un’espansività insolita.
I familiari sono esterrefatti. Hanno assisto alla scena senza intervenire: spesso i capricci di Marco, le sue reazioni esagerate ed inspiegabili, li paralizzavano lasciandoli per un po’ incapaci di reagire. Poi le reazioni emotive affioravano diverse in ognuno di loro: il papà innervosito puntava sull’autorità, la mamma sul lamento, il nonno sulla distrazione, la nonna sullo scandalo e Marco peggiorava di mese in mese.
L’iniziativa di Omar, invece, aveva rapidamente sbloccato la situazione e Mario, il papà, gli propose:- Senti, io ti ho detto che ti avrei rivestito e nutrito. Fatto questo ora penso che potresti fermarti qui con noi qualche giorno. Poi si vedrà. Sai, io e mia moglie lavoriamo e Marco sta con i nonni, che sono sempre in ansia per lui. Potresti occupartene tu per un po’. Mi sembra che andiate d’accordo.-
Marco intanto faceva il girotondo intorno al suo nuovo amico e, ogni tre giri, gli saliva sui piedi ridendo.
– Su dai, dai! Stai a giocare con me. Nessuno ha mai voglia di giocare con me.
Omar non aveva alternative e accettò con gratitudine.
Il giorno dopo tirava un vento caldo e sabbioso, che gonfiava il mare e inargentava gli ulivi.
Omar, benché fosse stanco a causa della movimentata giornata vissuta, non era riuscito a dormire bene. Era agitato e preoccupato per l’impegno assunto. E’ vero, aveva avuto sette figli, ma alla loro educazione aveva pensato la moglie, quando erano piccoli, poi man mano il clan.
Omar non era un cittadino. Benché in Nigeria, il suo paese, lo sviluppo delle città sia notevole, egli era sempre vissuto nella parte nord orientale del territorio, ai piedi dell’altopiano di Bauchi: Una terra pianeggiante e scarsamente alberata: la savana. Lì sorgono ancora villaggi i cui abitanti si dedicano all’agricoltura e alla caccia ed Omar era stato un contadino e un cacciatore. La vita, nel villaggio, era regolata da tradizioni antiche e consolidate.
Ora si trovava in un paese straniero con tradizioni diverse: là tutto era chiaro e stabilito, i ruoli ben definiti; qua gli pareva di intuire una certa confusione e lui non conosceva le regole. La situazione poteva sfuggirli di mano e farsi pericolosa.
Era stato tentato di alzarsi di soppiatto e di fuggire nella notte, poi il buon senso ebbe il sopravvento:- Domani uscirò con il bambino. Mi guarderò un po’ intorno, cercando di capire dove sono capitato, poi “Grazie e arrivederci” mi troverò un’altra sistemazione.- Presa questa decisione si addormentò che già albeggiava.
Anche i genitori di Marco ebbero una notte inquieta.
– Come ti è venuto in mente di affidare Marco ad uno sconosciuto, extracomunitario per giunta – bisbigliava nel buio la moglie di Mario.
– Sì, Mara, hai ragione. Sono anch’io meravigliato della mia impulsività, ma non pentito. In fondo ho parlato di pochi giorni. Domani mi metterò subito in contatto con la Caritas o qualche altra organizzazione simile. Troverò una sistemazione per Omar e tutto tornerà come prima. Non credo che Omar possa far del male a Marco per un giorno che passeranno insieme.-
– Speriamo – sospirò Mara.
– Ne sono sicuro. Sento che è un uomo buono, fidati di me.- concluse Mario.
Il mattino seguente avevano tutti la faccia grigia e le occhiaie gonfie. La sveglia aveva suonato alle sei per Mario e Mara . Nel giro di un quarto d’ora erano tutti in piedi.
– Con questo tempaccio non si può neanche uscire.- sentenziò la nonna, mentre serviva la colazione a tutti.
– Non così brutto – azzardò Omar – Io e Marco fare un giro intorno, consumare energia, poi stanco, poi mangia, poi dorme.
La nonna aveva deciso di non rivolgere la parola ad Omar direttamente, quindi si rivolse al genero:- Mario, levaglielo dalla testa.
– Forse pioverà è meglio non allontanarsi…- stava dicendo, quando Marco lanciò il solito urlo acuto, che precedeva la scenata. Il padre lo bloccò dicendo ad alta voce:- Comunque un po’ d’aria fa sempre bene. Se vuoi uscire devi mettere la giacca a vento e la sciarpa, mi raccomando.
– La sciarpa, no – protestò Marco – fa caldo. Faccio ridere.
– Omar, Marco senza sciarpa non esce, pensaci tu! – esclamò Mario, voltandosi per concludere la questione.
– Svelta Mara, che perdiamo il treno – disse Mario rivolto alla moglie. I due coniugi, infatti, viaggiavano insieme fino a Sestri Levante, dove Mario sarebbe sceso per attendere il diretto per Roma, sul quale doveva prendere servizio , mentre Mara avrebbe proseguito per Genova, dove lavorava.

I NONNI

La porta si richiuse sbattendo. Appena Omar e Marco furono usciti, la nonna si accasciò sul tavolo della colazione piangendo.

Adele, Adele, non fare così. Che ti succede? – chiedeva il marito, anche se sapeva benissimo il motivo della disperazione della moglie. Anche lui era infastidito dalla nuova situazione , ma non voleva cedere al pessimismo e soprattutto non voleva mettersi in urto dichiarato con il genero. Vivere insieme richiede sempre delle rinunce, degli aggiustamenti. Ci teneva lui ad andare d’accordo, suo genero era un impulsivo, ma era anche un bravo ragazzo, lavoratore, rispettoso, generoso, un po’ incosciente forse, ma si sa i giovani sono così, guai se anche loro fossero ansiosi.

Ora questa di accogliere in casa un clandestino e di affidargli per giunta il bambino era veramente grossa, ma … sì tutto sommato non era veramente preoccupato neppure lui, che pure era un uomo anziano, il nonno di un unico nipotino, il suo tesoro, la sua vita. Questo pensava nonno Antonio, mentre dolcemente accarezzava la testa di sua moglie per placarne i singhiozzi.

– Adele, parliamone, vedrai, non è così nera come la vedi tu.-

A sentire la parola nera i singhiozzi della nonna si trasformarono in un vortice di parole rabbiose e urlate.

– Non è nera, non è nera, tu dici? E cosa poteva capitarci di peggio? Il mio nipotino in giro per il paese con uno sconosciuto, più vecchio di noi e negro per giunta! Gli può succedere di tutto, ma anche se non gli facesse niente di male è una vergogna, una vergogna! Non uscirò mai più di casa: – gridava nonna Adele rossa in faccia e con gli occhi inviperiti.

– Adele, non ti riconosco. Anch’io sono preoccupato per questa uscita di tuo genero, ma è lo sconosciuto che mi spaventa, non il fatto che abbia la pelle scura. Questo per te peggiora le cose?-

– Sì. Sì le peggiora. –

– Perché?-

– Perché sono diversi. –

– Diversi vuol dire peggiori? –

– Oh, come la fai lunga. Sì, sì chi è diverso da me, non è come me, per me non va bene. E’ chiaro adesso?. – gridò Adele senza più ritegno.

_Antonio era allibito. Adele, sua moglie, la sua donna. Quarant’anni di vita insieme ed ora se ne usciva con queste affermazioni sconosciute, inammissibili. Di che cosa avevano parlato in quei quarant’anni? Di camicie stirate, di minestre salate, di stipendi e di spese. Di che cosa, di che cosa? Per un attimo Antonio sembrò non darsi pace per quel lato oscuro, che emergeva nel loro rapporto, poi il buon senso, quello che aveva governato tutta la sua vita ebbe il sopravvento e decise che non era il momento di discutere, di approfondire. Meglio rimandare, ora bisognava agire in qualche modo.

– Adele, – chiese con voce fredda – vuoi che vada a controllare cosa fanno, dove sono? –

– Sì, ti prego. Io non riuscirei a muovere un passo, sono distrutta. – gli sorrise di rimando lei, tendendo una mano in segno di riconciliazione.

Ecco era di nuovo la solita Adele, quella che lo faceva sentire indispensabile, unico. La baciò sulla guancia prima di indossare cappotto e sciarpa e voltarsi per uscire.

Aveva la mano sulla maniglia quando sentì la prima scossa, si girò per tornare in cucina da lei, la seconda scossa lo sorprese con le mani tese verso la moglie, che nel frattempo, in un lampo di lucidità aveva capito quello che stava accadendo e inspiegabilmente sorrise intuendo che Marco poteva salvarsi grazie allo sconosciuto vecchio e nero.

LA CATASTROFE

Il vento e il mare parevano gareggiare in potenza. In giro c’era poca gente.

Omar e Marco fecero presto a percorrere il centro abitato. Omar prendeva mentalmente nota dei luoghi che lo interessavano: la stazione, il mercato, i locali pubblici, una fabbrichetta, che chissà, poteva saltuariamente offrirgli lavoro.

Il bambino incominciava ad essere stanco, infatti stava spesso in casa e non era abituato a camminare a lungo. Nello stesso tempo era contento di stare con Omar. Lo divertiva quell’uomo, che parlava in modo strano e ogni tanto lo prendeva in braccio e poi lo lanciava in alto al ritmo di una nenia incomprensibile. Quando Omar gli disse:- Noi lassù sedere sotto albero e riposare.- Il pino ad ombrello, che l’uomo aveva indicato gli pareva lontanissimo. Marco, però, non osò impuntarsi, come faceva di solito, si limitò a dire: Però mi prendi in braccio.- Con una risata Omar rispose:- No braccio no. Spalla. – Si accucciò, mise un braccio a terra, quasi a far da ponte, con la mano destra prese Marco per le mani e lo tirò su per il braccio, rapidamente fino alle spalle, si rialzò e riprese il cammino, fingendo di barcollare con gran divertimento di Marco.

Omar aveva giocato poco con i suoi figli, quando erano piccoli, perché la cura dei bambini, nel suo villaggio, era affidata esclusivamente alle donne: madri, zie, nonne.

Solo quando i figli maschi adolescenti avevano superato la cerimonia dell’iniziazione, seguendo il cerimoniale di antichi riti, venivano affidati all’educazione paterna, che provvedeva a renderli abili nel lavoro e nella caccia.

Ora si stupiva di trovarsi a suo agio con Marco.

Forse le situazioni difficili rendono gli uomini veloci nell’apprendere.

Intanto il vento si era calmato, faceva quasi caldo, ci fu qualche minuto di pace e di silenzio tanto che si sentiva solo il respiro un po’ affannoso del vecchio. Poi un rumore sordo e tambureggiante, che fece dire a Marco .- Il treno.-

Si trovavano ormai lontani dal paese quasi in cima all’erta collina, che lo circondava alle spalle. Non poteva essere il treno. Omar sentì i suoi piedi incerti sul terreno e pensò: _ Sono vecchio, non posso più fare certi sforzi. E’ arrivata la mia ora. Il bambino…- e si afflosciò a terra avendo cura di posare Marco accanto a sé. Il tremito del terreno aumentava, ora lo sentiva anche Marco, che fece appena in tempo a chiedere: – Cosa…- poi un boato e il caos.

I due furono sballottati, assordati, confusi e così impauriti da non aver il coraggio di alzare la testa e aprire gli occhi. La paura è eterna quando prende davvero. In quei momenti sdraiati a terra, bocconi, le mani sulla testa in un gesto istintivo di difesa, videro proiettate nelle loro mente scene a raffica. La loro vita veniva riproposta in particolari banali o importanti senza che potessero scegliere a cosa pensare. Poi tutto finì e l’uomo e il bambino sentirono solo dentro le orecchie il tumulto del loro cuore.

Quando trovarono il coraggio di muoversi e guardar giù li aspettava una visione apocalittica. Sotto di loro il paese era irriconoscibile coperto di polvere. Più lontano il mare si era quasi calmato come il vento, che prima infuriava implacabile.. E fu di nuovo silenzio.

LA CLANDESTINITA’

Omar si prese la testa tra le mani: aveva capito che lui e Marco erano rimasti soli. La situazione gli parve inaccettabile, come inaccettabile era la fuga e l’abbandono di Marco in quella catastrofe. Così per un poco si aggrappò al dubbio, alla speranza di ritrovare vivi i parenti del bambino. Marco dal canto suo sembrava una statua: immobile, il respiro trattenuto, la bocca aperta, lo sguardo opaco, sembrava avesse paura di far domande e di tornare a vivere. Pur così piccolo aveva intuito che era successo qualcosa di terribile. Il vecchio Omar se lo caricò sulle spalle e disse: ” Andiamo giù. “

Man mano che scendevano il terremoto mostrava il suo volto orribile. Il sentiero che avevano percorso all’andata in certi punti era scomparso. Bisognava compiere deviazioni e lunghi giri: la terra era franata, gli alberi sradicati e dalla valle salivano il fumo e l’odore degli incendi. Marco incominciò a piangere e Omar non intervenne, perché anche lui trovò sollievo nel pianto. A un certo punto lo fece scendere dalle spalle e l’abbracciò forte. In quel gesto, erano condensati tutti i discorsi ,le promesse e le consolazioni, che non poteva esprimere a voce.

Il paese era irriconoscibile. Le poche strade ancora percorribili dalle auto erano intasate dai mezzi dei pompieri, dalle ambulanze e da una ruspa enorme, che si era trovata a passare di lì e non era stata neanche scalfita dal crollo delle case. Il conducente si era dato subito da fare a smuovere macerie e detriti e veniva insistentemente chiamato dai pochi sopravvissuti, che richiedevano aiuto per le proprie famiglie.

Omar e Marco si tenevano stretti per mano. In quella confusione nessuno faceva caso a loro. Potevano camminare, quindi non avevano bisogno di niente.

Oltrepassato il paese giunsero agli scogli, che racchiudevano la spiaggetta di fianco alla casa. Scogli e spiaggia erano intatti, come ieri, come centinaia di anni prima. Della casa non rimaneva che una piramide di macerie fumanti. Nel giardino una pianta di crisantemi mossa dalla brezza feriva lo sguardo con la sua vitalità. Marco si rifugiò tra le gambe di Omar e ricominciò a piangere disperato chiamando tra i singhiozzi mamma e papà.

– Senti Bacchetta tu forte, io grande. Noi insieme, noi togliere pietre.- e Omar incominciò a spostare detriti con le sue grandi mani, che sembravano una pala meccanica. Non un suono o un lamento proveniva da sotto e questo era un gran brutto segno. Omar lo capiva, ma aveva bisogno di scaricare con un’attività fisica la sua tensione. A poco a poco Marco lo imitò aggredendo con le sue manine i pezzi più piccoli. Il gigante e la formica lavorarono per un po’ in silenzio. Quando Marco scoppiò di nuovo a piangere invocando la mamma a Omar venne in mente un pensiero confortante.

– Bacchetta, mamma e papà non qua sotto. Al lavoro. Poi viene.- Lui però non sapeva dove cercarli. Chissà dove lavoravano quei due. Vicini, lontani, insieme, separati? Si accorse con sgomento di non sapere niente di loro, neanche il cognome. Decise che non si sarebbero mossi di lì, neanche per fame. Se erano vivi, i genitori di Marco, sicuramente sarebbero ritornati a casa a vedere cosa era successo.

Marco e Omar erano sdraiati sulla spiaggia, esausti, sfiniti, quasi addormentati, quando una motobarca della Finanza, che pattugliava la costa, si avvicinò. Sbarcò un finanziere, mentre l’altro restava a bordo a governare la barca.

– Ehi, voi due, siete di qui?- chiese da lontano il finanziere. Omar si sentì mancare. Oh diventare invisibile per un po’. Perché non aveva quel potere?

– Ma tu sei un africano! Cosa ci fai con questo bambino?- chiese sospettoso. – Documenti prego.- intimò.

– Documenti? Là sotto.- e indicò le macerie della casa.

-Zio, zio, ho fame.- se ne uscì intanto Marco con una di quelle intuizioni inspiegabili che ogni tanto hanno i bambini.

– E’ tuo zio? Hai uno zio africano? – chiedeva intanto incredulo il finanziere.

– Sì, sì lui è mio zio Omar e io ho fame.- Marco stava per avere una delle sue crisi. Si sfregava i piedi, tremava irrigidendosi e piangeva urlando a perdifiato.

Il finanziere rimase sconcertato.

– Cosa succede?- domandò rivolto a Omar.

– Lui malato. Mangiare. – e intanto lo prese per le caviglie, lo sorresse dietro la schiena, lo lanciò in aria per fargli riprendere respiro. Poi lo riprese sotto le ascelle e lo abbracciò forte. Il bambino poggiò la testa sulla sua spalla e continuò a piangere dolcemente: la scena rivelava gran confidenza e complicità tra i due. Il finanziere aveva già troppi problemi da risolvere e decise che quello si sarebbe potuto chiarire più tardi.

– Ora vi accompagniamo con la motobarca al paese al centro della Croce Rossa, dove potrete mangiare un pasto caldo. Poi stasera ci rivedremo e chiariremo la situazione.- disse.

I due salirono sulla barca un po’ mogi. Omar era preoccupato per le domande che i finanzieri avrebbero potuto fargli e, per aggirare l’ostacolo, incominciò a cantare una ninnananna africana con l’intento di far addormentare Marco.

Chissà da quali recessi mentali veniva fuori quella ninnananna, che lui non aveva mai cantato…Un ricordo d’infanzia o una nenia intuita vicino alla capanna delle donne, quando la sua stanchezza si affievoliva nella dolcezza di un canto ?

Due o tre volte i militari si girarono verso di lui come per chiedergli qualcosa, ma lui li preveniva mettendosi un dito davanti alla bocca in segno di silenzio, come a dire : c’è tempo, dopo ne parliamo.

Il tragitto era breve e ben presto arrivarono alla spiaggia grande, dove sbarcarono. Un finanziere scese con loro e li accompagnò al centro della Croce rossa, qui li affidò a un medico.

– Li abbiamo trovati a Scogli, hanno fame. Mi raccomando li tenga d’occhio, perché dobbiamo chiarire alcune cose. Ora noi dobbiamo andare, ci hanno chiamati a Fossa, qualcuno ha bisogno di essere trasportato in ospedale. Ci vediamo tra un’ora.

Il dottore si rivolse ai due : – Siete feriti ?-

– No, noi solo fame, noi stanchi, noi dormire.- rispose pronto Omar.

– Allora, andate a destra. C’è una tenda dove distribuiscono i pasti, poi ci vedremo.- concluse il dottore, mentre già si avviava dietro un’infermiera, che era venuta a cercarlo per una medicazione urgente.

Omar respirò sollevato, forse se la sarebbero cavata senza inconvenienti. Con Marco in braccio si avviò verso il centro distribuzione pasti. Mentre attraversava il piazzale, però gli venne in mente che stava prendendo la decisione sbagliata. Doveva assolutamente dividersi dal bambino, non poteva trascinarlo in una vita da clandestino piena di disagi e pericoli, inoltre , anche se non conosceva le leggi, intuiva che lui stesso avrebbe rischiato di più portandoselo appresso. Avrebbero potuto accusarlo di rapimento, maltrattamenti o chissà cos’altro ancora. Quello era il posto giusto per lasciarlo: vicino a casa, in un centro attrezzato, dove qualcuno poteva occuparsi di lui e dove inoltre i suoi genitori avrebbero potuto ritrovarlo facilmente. Volesse il cielo, aggiunse in cuor suo. Sì, quella era la decisione giusta, l’unica ragionevole. Ebbe un brivido di paura a ripensare a quello che stava per fare: fuggire e cercare di sopravvivere in un paese straniero e sconosciuto con un bambino piccolo, che aveva incontrato appena il giorno prima. Pazzo, pazzo, povero vecchio pazzo. Quanto a lui, se ne sarebbe in qualche modo tornato in Africa a morire d’odio e di solitudine.

Marco dormiva ancora tra le sue braccia pacifico e rilassato come in letto di piume. Lo guardò con affetto, sentì che quel bambino l’aveva un po’ stregato, facendolo sentire ancora vivo e utile.

La fila si era accorciata , solo due persone davanti a lui.

Omar si riscosse dai suoi pensieri e svegliò Marco.

– Dai, Bacchetta, sveglia! Buona minestra calda.- e lo mise a terra. Oltre alla minestra venivano distribuiti carne in scatola, piselli o fagioli a scelta pure in scatola, cioccolata e latte condensato. In un altro tavolo distribuivano acqua minerale e arance.

Omar assunse un’espressione istupidita e si fermò a lungo davanti ad ogni tavolo. Gli addetti gli consegnavano il cibo dicendo: – Forza, avanti – e lui sorrideva ed assentiva con la testa , come fa chi non capisce bene, e restava lì impalato allungando ancora la mano. In conclusione riuscì ad avere quasi tutte le razioni doppie e fu molto soddisfatto della sua trovata.

Si allontanò con Marco in cerca di un posto riparato e tranquillo dove mangiare, riposare e poi…andarsene senza farsi notare. Di nuovo scelse un albero. Questo era un leccio grande e vecchio, con un tronco dove potevano appoggiarsi comodamente due schiene e rami forti, dove ci si poteva arrampicare e nascondere facilmente. Inoltre si trovava proprio a ridosso del muro di cinta, che divideva il campo dalla collina. Una volta arrampicati sull’albero si poteva facilmente oltrepassare il muro e allontanarsi indisturbati nella campagna circostante. A questo aveva pensato Omar nella sua scelta.

– Ora mangiamo, poi dormiamo. – disse Omar a Marco, mentre disponeva ordinatamente tutti gli alimenti ricevuti.

– Mamma…- incominciò a frignare Marco.

– Ci siamo – sospirò Omar, che non era abituato a consolare bambini. Gli venne un’idea.

– Ora bendo tuoi occhi, poi tu cerchi, tu trovi. – propose a Marco. Il bambino incuriosito lasciò fare. Omar nascose tutte le scatole di cibo ricevute nei suoi ampi vestiti. Nelle tasche, sopra la cintura, nelle maniche e qualcosa persino nelle calze, poi tolse la benda a Marco e gli disse:- Io nascosto tutto mangiare, tu cerchi, tu trovi, tu mangi.-

A Marco piaceva di più questo gioco, che i soliti consigli e raccomandazioni che gli facevano a casa e partecipò con entusiasmo. Trovò per prima una scatola di piselli, tirarono la linguetta, l’aprirono e se la divisero tra loro come due vecchi amici di tante avventure.

Intanto Omar pensava: che faccio? Lo lascio appena si addormenta e mi allontano senza dirgli niente? Oppure gli racconto che mentre lui dorme io vado a cercare i suoi genitori e glieli porto qui?

Ingannare il piccolo gli ripugnava, spiegargli la verità era troppo complicato. O Dio, Dio, ma perché dev’essere tutto così duro e difficile per me! Aiutami, non ne posso più, pregava in cuor suo il vecchio nero, vestito da ispettore scolastico, in un paese straniero devastato dal terremoto.

Non era chiaro neppure a lui a quale Dio si rivolgessero i suoi pensieri. Omar aveva radici pagane, un nome musulmano dovuto a scambi commerciali, che i suoi genitori avevano avuto con il Sudan, prima della sua nascita e, infine, aveva conosciuto la religione cristiana in età matura. Infatti, da qualche decennio, una missione era sorta e si era sviluppata alla confluenza del Benué col Niger. La foresta densa e umida lungo le rive dei fiumi era il punto più lontano raggiunto periodicamente da Omar e dai suoi compaesani per scambi commerciali e baratti. Loro portavano oggetti in legno, maschere intagliate, stoffe variopinte tessute dalle donne del villaggio e ricevevano in cambio alimenti in scatola, poche medicine, di cui avevano appreso l’uso, strumenti agricoli, sementi.

Finito di mangiare Marco lo richiamò al presente e lo tolse dall’imbarazzo dicendogli: – Io sono stanco, mentre dormo tu vai a vedere se è arrivata la mamma, ma torna subito, perché se non ti trovo quando mi sveglio, io piango. – e cadde addormentato.

Omar lo salutò con una carezza delicata, gli lasciò accanto una tavoletta di cioccolata e si arrampicò sull’albero, passò di ramo in ramo per allontanarsi dal campo senza dar nell’occhio. Quando ebbe oltrepassato il muro saltò giù e si avviò rapido nella boscaglia senza pensare troppo a che cosa avrebbe fatto l’indomani.

IL PAESE E LA GENTE

Quando succedono tragedie collettive come la guerra e le catastrofi naturali, la gente si trasforma. E’ come se le persone si togliessero la maschera e ognuno desse il meglio o il peggio di se stesso.

Erano passate alcune ore dal terremoto, ancora l’odore di bruciato stagnava sui paesi distrutti, il frastuono delle pale meccaniche e dei compressori ogni tanto s’arrestava per individuare il suono della vita: lamenti o richieste d’aiuto sotto le macerie, case in cemento armato si ergevano superbe e intatte accanto alle macerie di altre case distrutte o sventrate, strade dissestate rendevano inservibili le auto.

Le persone si muovevano in questo scenario spinte da impulsi diversi. C’era chi, dimentico di se stesso e della fatica, si prodigava per portare aiuto ai bisognosi e ai sofferenti. C’era chi, colpito dall’evento eccezionale, non riusciva neanche a togliersi di mezzo. Fermi, inebetiti, silenziosi alcuni stavano impalati senza risolversi a prendere una qualsiasi decisione. Altri imprecavano, bestemmiavano e ce l’avevano con tutti, anche con i soccorritori, che si muovevano seguendo precise prescrizioni, già collaudate in casi analoghi. Nei luoghi di maggior distruzione si accalcavano i curiosi, allungavano il collo per commentare e criticare. Infine c’erano i furbi, gli sciacalli in cerca di vantaggi personali. Si muovevano con l’aria di voler aiutare, poi si infilavano come ladri nelle case o nei negozi incustoditi e facevano man bassa di ogni oggetto di valore. Questi ultimi non erano molti per la verità, ma anche uno è di troppo.

La sera scese a coprire tutto: il bello e il brutto dell’umanità, a portare riposo ai buoni e ai cattivi, mentre Omar si separava da Marco.

IL SOGNO

Il sonno di Marco fu tranquillo e profondo nelle prime ore. Il bambino aveva vissuto una giornata impegnativa sia dal punto di vista fisico che psicologico. Ora il suo corpo aveva bisogno di ricaricarsi. Un buon sonno era la medicina giusta. Omar l’aveva coperto con la sua giacca scura e la sagoma minuscola del bambino sdraiato ai piedi del grande albero non si notava affatto. Tutto era color dell’ombra e della sera. Nessuno si avvicinò : c’erano lettini da campo a disposizione sotto le tende e nessuno sentì il bisogno di isolarsi e dormire all’aperto.

Trascorse le prime ore di sonno tranquillo Marco incominciò a sognare. Rivide la casa intatta e bianca nel sole. Di colpo una grossa nube scura proiettò la sua ombra sulla casa e sul giardino. Marco vedeva tutto dall’esterno, ma contemporaneamente era dentro. Era in casa e litigava con la nonna, che non lo lasciava uscire, perché aveva il raffreddore.. Il nonno cercava di consolarlo proponendogli dei giochi da fare insieme, ma il domino e il puzzle lo annoiavano. Lui voleva star fuori, magari correre lungo la spiaggia e raccogliere piccoli cocci di vetro verde levigati dal mare e qualche rara conchiglia.

-Lasciami almeno stare in giardino a giocare con la paletta. – stava dicendo alla nonna, quando di colpo la nonna sparì, anche il nonno non c’era più. Lui si voltò: era rimasto solo e la casa si faceva sempre più scura, più scura, tentò di correre fuori, ma le sue gambe erano inservibili. Con gran fatica nel sogno Marco muoveva le gambe, ma restava sempre nello stesso posto. Infine fu buio totale prima dello scoppio. Il tetto, le pareti, tutto volò verso l’alto compreso Marco, che si svegliò, senza fiato, mentre era in volo.

L’odore di naftalina che emanava dalla giacca lo rassicurò. Pensò di essersi appena addormentato, ricordò che Omar era andato a cercare la sua mamma. –Mi ha lasciato la sua giacca, ora ritorna. – pensò Marco e di nuovo fu preda del sonno.

LA RICERCA

I genitori di Marco lavoravano entrambi lontani da casa. Il padre faceva il ferroviere , o meglio il macchinista , su linee nazionali di lunga percorrenza. Durante la settimana dormiva almeno due notti lontano da casa. Il giorno del terremoto aveva ripreso servizio dopo le ferie. Salito sul treno a Sestri Levante l’aveva guidato fino a Roma, dove, appena sceso, aveva appreso la notizia del disastro.

La mamma lavorava a Genova nella sede centrale delle Poste e, benché avesse chiesto più volte il trasferimento per avvicinarsi alla famiglia, non l’aveva mai ottenuto.

Lei sentì il terremoto, come tutti gli abitanti della Liguria e delle regioni circostanti, ne fu anche molto impaurita, ma lì per lì, non si preoccupò eccessivamente, perché le prime notizie furono molto confuse e contraddittorie. Una radio sosteneva addirittura che il terremoto aveva avuto origine nella Riviera di Ponente. Solo verso mezzogiorno l’informazione fu più precisa e alle dodici e mezza divenne ufficiale: si era verificata una scossa tellurica del tutto inaspettata . L’epicentro era nel golfo Tigullio tra il promontorio di Portofino e quello di Punta Manara. La zona circostante per un raggio di venti chilometri era stata devastata da un violento terremoto, che aveva provocato danni a persone e cose. Oltre la zona dell’epicentro erano stati lesionati alcuni edifici, ma non si contavano vittime. Linee ferroviarie, stradali, telefoniche ed elettriche erano state danneggiate o distrutte. I soccorsi si dovevano organizzare via mare e con l’aiuto degli elicotteri, perché ogni altra via era preclusa.

Mara svenne all’udire la notizia e, quando si riprese, le sembrò di impazzire. Si trovava lì nel suo ufficio intatto, mentre i suoi genitori e il suo bambino potevano essere sepolti sotto le macerie. Se salvi, sicuramente traumatizzati e bisognosi del suo aiuto. E lei era lì, senza possibilità di tornare a casa, di telefonare. Era lì sola, suo marito lontano quasi seicento chilometri, forse anche lui pazzo d’ansia, senza possibilità di comunicare tra loro, di aiutarsi. Il cuore e la testa parevano scoppiare.

Si maledisse per la sua opposizione al cellulare. Mario ne era stato attratto, ma lei, conservatrice per temperamento ed educazione, si era opposta con forza. Provava imbarazzo quando, in treno o per strada, si trovava di fronte qualcuno, con il telefonino all’orecchio, che parlava senza riservatezza dei fatti suoi, ridendo e spettegolando. Trovava ridicole quelle persone. Ridicole ed esibizioniste, mai si sarebbe voluta confondere con loro. Ma ora. Oh avere un cellulare, adesso! Poi ci ripensò e si accorse di quanta confusione avesse in testa. Mario avrebbe dovuto avere il cellulare, non lei, che aveva già provato a telefonare a casa, inutilmente. Aveva provato anche a mettersi in contatto con Roma. Le linee funzionavano, ma nessuno sapeva darle notizie precise di Mario. “Sì, è arrivato. Forse è ripartito. Non so aspetti. Chiedo” Insomma una gran confusione.

Decise che doveva fare qualcosa, muoversi, pensò persino di tornare a piedi, come aveva sentito raccontare dalle persone che erano vissute in tempo di guerra. Già, la guerra, ora incominciava a capire quanto dolore potesse aver portato. Si rivolse alla Polizia, ai Carabinieri, alla Marina Militare, alla Croce Rossa, niente da fare; ogni volta la risposta era la stessa: hanno la precedenza i feriti e i mezzi di soccorso, i familiari stiano calmi.

Poi le venne in mente un amico d’infanzia, che ora aveva un battello turistico nel porto di Genova, ma anche questa possibilità le fu preclusa. Il battello e il suo comandante erano agli ordini della Marina Militare per i soccorsi, nessun privato poteva usufruire del servizio.

Allora si decise. Pregò piangendo un’amica di accompagnarla in auto il più vicino possibile, fin dove si poteva arrivare, poi avrebbe proseguito a piedi.

L’amica tentò di distoglierla da quest’idea irrazionale.

– Ma dove vuoi arrivare, è quasi sera, ormai le giornate sono corte. Fermati a casa mia stanotte, domani si vedrà.-

IL RITORNO

Le notizie a Roma giungevano precise e dettagliate . Mentre le ascoltava Mario veniva assalito da una rabbia impotente. Avrebbe voluto sbattere la testa contro il muro, diventare incosciente, non sapere più niente. La sua mente invece lavorava in modo febbrile : gli proiettava le scene del suo paese devastato, della sua casa distrutta, ma quando pensava a Marco, le prospettive erano così terrificanti, che si rifiutava di immaginare. A poco a poco si calmò. I suoi superiori gli concessero il permesso di rientrare. Salì sul primo treno diretto al nord, sapendo che La Spezia era il capolinea. Proibito proseguire. In cuor suo sperava che , una volta raggiunta La Spezia, avrebbe convinto qualche collega a lasciarlo proseguire , con la motrice e due vagoni vuoti, fin dove la ferrovia era integra. Poteva essere un’idea per i soccorsi, un riparo per i senzatetto. Questo progetto lo assorbì completamente, distraendolo un po’ dall’angoscia per l’accaduto. All’arrivo alla Spezia fu così convincente, che ottenne il permesso di proseguire, mentre la Protezione Civile veniva informata che un treno vuoto era a disposizione dei senza tetto nei pressi della stazione di Bonassola.

Mario lasciò il treno in custodia ai colleghi, che l’avevano accompagnato e, fornito di viveri, acqua, coperte si inerpicò sui sentieri antichi in direzione ovest.

Era ormai notte, ma la luce della luna e quella più modesta di una pila lo accompagnarono nel cammino.

Era la sua terra, ma Mario non la conosceva. La costa, le cittadine, le spiagge erano il suo territorio.

La montagna di notte non era così disabitata come Mario credeva. Scricchiolii di rametti secchi sotto i suoi piedi, pietre che rotolavano lungo le scarpate, frusci d’ali di gufi e civette, squittii di topi o scoiattoli, tutto lo impauriva e nello stesso tempo gli teneva compagnia.

Ad un certo punto gli parve anche di udire dei passi. Col cuore in gola sventagliò la pila a destra e sinistra, ma non vide nessuno.

Omar era stato veloce ad abbassarsi dietro il folto cespuglio di corbezzoli. Il viandante sul sentiero lo oltrepassò senza accorgersi della sua presenza. Omar stette fermo ancora qualche minuto per prudenza, poi stanco , ma deciso, riprese il cammino verso est. Chissà chi era l’uomo sul sentiero, carico come un mulo e ansante come una locomotiva. Quando aveva alzato la pila, per un attimo lo aveva scorto in viso: gli era sembrata una maschera grottesca, gli occhi gonfi , la fronte coperta da un passamontagna, l’unica cosa sicura era che si trattava di un bianco. Per essere lì a quell’ora, così conciato, dove essere per forza un delinquente, un ladro, forse un evaso. Omar tirò un sospiro di sollievo: l’aveva scampata bella! Si riaggiustò le scarpe che, all’inizio della camminata, aveva appeso attorno al collo. Omar era abituato a camminare a piedi nudi: al suo villaggio era considerato eccentrico e scomodo imprigionare i piedi nelle scarpe. Dopo che era andato a vivere in città si era abituato ad indossarle e ormai le sopportava senza fatica, ma le scarpe dell’ispettore scolastico troppo grandi e con la suola di cuoio erano veramente inadatte al percorso, così, fatti pochi passi sul sentiero se le era tolte, aveva annodato le stringhe tra loro in modo da poterle mettere penzoloni sul collo e avere le mani libere. Il percorso notturno sui sentieri di montagna gli ricordò i giorni della caccia. Il paesaggio era completamente diverso, ma simili erano la concentrazione e i movimenti. La caccia al suo paese era un’attività di gruppo e richiedeva una preparazione meticolosa e un’attuazione scrupolosa. Ora era solo e si sentiva più preda che cacciatore, ma la relazione tra preda e cacciatore è più complementare che opposta. Omar ebbe un momento di nostalgia per la sua terra e per la sua gioventù, ma ricordare era troppo doloroso, si concentrò sul cammino e sulle strategie di sopravvivenza che avrebbe attuato il giorno dopo.

Mario giunse a Moneglia all’alba. Era il secondo giorno dopo il terremoto e la cittadina, in quei minuti che precedono il sorgere del sole, sembrava in letargo. Irreale la mancanza di luce, di rumori; le macerie accasciate a terra qua e là sembravano appartenere più ad un quadro che alla realtà. Mario era appoggiato al grande pino, che aveva accolto Omar e Marco durante il terremoto. Senza saperlo anche lui cercava conforto ed energia dal grande albero. Stava lì e non si risolveva a scendere e ad affrontare la verità. D’un tratto, come in un presepe meccanico, il paesaggio si animò. Si misero in moto i generatori di corrente, il rumore dei compressori riempiva l’aria di vibrazioni, persone rese rigide dal cattivo riposo uscivano dalle tende del campo della Croce Rossa e dalle case fredde e tristi. Mario si riscosse e iniziò la discesa. Pensava. – Vado a casa. – Poi no, – Vado subito al campo a chiedere informazioni – e scendeva con gli occhi bassi, la testa in fiamme e il cuore in tumulto. Mentre attraversava le strade, qualcuno lo riconosceva e voleva condividere con lui il proprio lutto, lo spavento, la pena, ma Mario, solitamente così disponibile, questa volta non aveva tempo per nessuno, procedeva a passo veloce verso il campo della Protezione Civile per avere notizie precise, pieno di paura e di speranza. Gli risposero che sì, un bambino di tre o quattro anni in compagnia di uno zio africano era stato rifocillato e accolto. A qualcuno pareva di ricordare, che i due si erano diretti verso il fondo del campo, là verso il muro di cinta. Mario corse in quella direzione, si guardò intorno, ma di Omar e Marco neanche l’ombra. Poi alcuni rifiuti sotto un albero attirarono la sua attenzione: una scatola di piselli vuota, la carta di una tavoletta di cioccolato e… fluttuante nel vento, impigliata in un cespuglio la sciarpa di Marco.

Allora sì, non c’era dubbio, Marco si era salvato dal terremoto, dove essere lì in giro, ma dove?

IL RITORNO DI MARA

Mara si era lasciata convincere dall’amica, che, oltre ai consigli le aveva fornito anche un tranquillante ed era caduta in un breve sonno profondo, privo di sogni. Prima dell’alba però, era già in piedi, tutta rotta, ma decisa a partire. L’amica l’accompagnò, come aveva promesso.

Raggiunsero in macchina Riva Trigoso, dove fu loro rigorosamente proibito di proseguire. Anzi era anche proibito posteggiare le auto dei privati, così l’amica tornò a Genova e Mara proseguì a piedi verso casa. Non era più abituata a camminare tanto, le scarpe non erano le più adatte per affrontare sentieri pietrosi e ogni tanto Mara prendeva una storta, ma era sorretta da una grande forza nervosa. Mentre camminava pregava. Pregava meccanicamente, l’antica Ave Maria imparata da bambina, pregava coscientemente una valanga di no, di perché, di aiuto. Pregava per chiedere e pregava per accettare. Finalmente giunse in vista della spiaggetta. Il cuore le si strinse, le parve di svenire: la sua casa dall’alto era una piramide di pietre, di mattoni e calcinacci, che coprivano come una tomba i suoi affetti, la sua vita. E, come per una tomba, lo sfacelo era rallegrato da una pianta di crisantemi che, sgargiante, vibrava nel vento.

LA FUGA

Marco aveva ancora gli occhi chiusi. Infreddolito e indolenzito incominciava a stiracchiarsi sotto l’albero, quando si sentì toccare. Aprì gli occhi e vide un ragazzino sui dodici anni, magro, abbronzato, con gli occhi vivacissimi, che lo scuoteva per svegliarlo

– Ehi, tu. Svegliati! Perché sei qui da solo? –

– Io… Aspetto Omar. –

– Chi, quel nero che era con te ieri sera, quando sei arrivato ?-

– Sì, mio zio.-

– Ma va là zio. Non c’è più. Ho già fatto tutto il giro del campo e non l’ho visto. Quello se l’èdata a gambe. E dobbiamo farlo anche noi subito se non vuoi finire in collegio.-

Marco incominciò a piangere, ma fu subito zittito da Ivan lo zingarello, che l’aveva svegliato.

– Piantala stupido! Vuoi svegliare tutto il campo. Li avremo tutti addosso, se non la smetti.-

Marco non era abituato ad obbedire, ma capiva benissimo di trovarsi in una situazione anomala e smise di piangere. Intanto Ivan raccoglieva velocemente indumenti e alimenti sparsi intorno.

– Allora vuoi finire in collegio o venire con me ?- chiese impaziente.

Marco non sapeva cosa fosse il collegio. Era una parola che aveva già sentito dire dalla nonna in tono di minaccia ed ora nuovamente sembrava il peggiore dei mali. Non aveva scelta.

– Vengo con te – disse, mentre l’altro già si arrampicava sull’albero, che aveva favorito la fuga di Omar.

– Allunga il braccio. Ti aiuto. – disse Ivan.

Arrampicarsi e scalare il muro non fu facile per il piccolo Marco, mentre Ivan era agile come una scimmia.

– Ho perso la sciarpa – esclamò ad un certo punto Marco.

– Non importa, lascia perdere. Non vedi che arriva gente ?- Rapido lo spinse giù dal muro su un cespuglio di ginestra.

– Zitto, non fiatare. Di là c’è qualcuno che ti cerca.- gli intimò Ivan, mentre lo copriva con il suo corpo.

Marco aveva il cuore in gola per la paura. Aveva paura anche a respirare. Qualcuno lo stava cercando per metterlo in collegio!

Invece di là dal muro c’era il suo papà disperato di non trovarlo.

Dopo che ebbero sentito i passi dell’uomo allontanarsi i due si avviarono su per il sentiero verso l’avventura.

Fu dura arrivare a Deiva, ma Marco, in un giorno e una notte, era come se fosse cresciuto improvvisamente di due anni.

Per strada Marco incominciò ad interrogare Ivan, che però non era molto disponibile a farsi intervistare.

-Non mi ricordo come ti chiami, me l’hai già detto? – chiese il piccolo al suo nuovo compagno.

– Ivan

-Ivan e poi ?

– E poi basta – rispose brusco il ragazzino e aggiunse :- Anche se ti dicessi il mio cognome non saresti capace di ripeterlo.

– Dai dimmelo, io mi chiamo Marco Baccini e abito a Moneglia con i miei genitori e con i miei nonni.

Appena pronunciata la frase Marco fu ripreso dal dolore e dalla paura. Non era vero, non era più vero niente nella sua vita. Aveva perso la casa, i nonni e ora anche Omar, il suo nuovo zio, che sapeva divertirlo. I genitori… qui la paura si ingrandì e Marco si fermò e scoppiò in pianto.

– Uh che lagna che sei! Cos’hai adesso? Ti fanno male i piedi?- chiese Ivan spazientito.

– No, voglio la mamma, voglio il mio papà.- singhiozzò Marco.

Ivan allargò le tasche e disse: – Sono qua dentro? Ce li ho in tasca forse? No. Allora non chiederli a me. Io sono senza genitori e senza nonni e sto benissimo. So cavarmela da solo, senza nessuno che rompa. Se vuoi imparare anche tu vieni con me, se no ciao e amici come prima, io me ne vado. E così dicendo affrettò il passo. – No, aspettami. – gridò Marco e affannosamente lo raggiunse. – Posso dirti una cosa? – insistette il piccolo, che non poteva stare solo con i suoi pensieri – E dimmi quello che vuoi, basta che non resti indietro.- brontolò l’altro.

– Mia nonna sta sempre in cucina. Fa molto bene da mangiare anche se io a volte non voglio neanche assaggiare quello che lei mi prepara, però se adesso avessi una fetta della sua crostata…me la papperei tutta in un sol boccone. No anzi te ne darei un po’ da assaggiare. Ti piace la crostata? – – Senti, tu parla finché vuoi, ma non interrogarmi. Io devo pensare a cose serie. A quello che faremo quando arriveremo al prossimo paese, quindi continua a parlare e stai al passo, ma non interrompere mai i miei pensieri, altrimenti mi arrabbio sul serio.-

– Marco per un po’ procedette in silenzio pensando ai suoi giocattoli, che la nonna voleva sempre in ordine sugli scaffali, mentre lui li lasciava volentieri per terra. Allora erano sgridate, minacce, finché il nonno veniva in suo aiuto e li mettevano a posto insieme. “Nonna, adesso metterei a posto tutto subito” gli venne da pensare e di nuovo il nodo alla gola e una gran voglia di piangere. Ricacciò indietro le lacrime e ricominciò a parlare a voce alta. – Lo sai che mio nonno faceva andare tutti i treni della Liguria e adesso è in pensione e guadagna più di mia mamma che va a lavorare tutti i giorni fino a Genova, ma anche lui lavorava lontano, stava a Arquata e d’inverno c’era freddo e metteva un mattone caldo nel letto e poi non si girava più, perché se no prendeva freddo e per fare la pipì doveva uscire sul terrazzino della cucina e andare in un gabbiottino piccolo piccolo e – Marco avrebbe continuato ancora chissà quanto con le prodezze del nonno, ma Ivan esclamò: – Ecco laggiù c’è un paese, meno male, perché incominciavo a essere stanco. –

Il terremoto aveva segnato anche Deiva, ma lì per fortuna non c’erano state vittime e la confusione era minore. Alla periferia si era accampato un piccolo circo. Qualche sfollato aveva trovato rifugio sotto il tendone tra artisti, clowns e leoni vecchiotti. La gente del circo non si pone tante domande. E’ abituata a viaggiare, a incontrare gente diversa, ad accogliere. All’alba aveva accolto Omar, che si era proposto con un numero di danza e canto in uso nel suo villaggio prima della caccia. A sera aveva accolto Ivan e Marco sfiniti ed affamati. Ivan aveva detto di essere bravo al trapezio, ma che al momento era troppo stanco e avrebbe mostrato la sua bravura l’indomani. Furono alloggiati in una roulotte, lavati e rifocillati senza dover rispondere a domande fastidiose.

IL CIRCO

La troupe del circo capì subito che a Deiva non avrebbe più fatto affari. In quella situazione di emergenza e di lutto la gente non aveva voglia di andare al circo. Il terzo giorno dopo il terremoto gli sfollati si erano sistemati da parenti o amici e il direttore del circo fu libero di levare il tendone e ripartire. Si diressero a sud: avevano programmato qualche spettacolo in Toscana.

Omar e i due bambini non si erano ancora incontrati. Omar era alloggiato con gli inservienti, gli uomini robusti , che montano e smontano gabbie e tendoni e propongono numeri di grande forza: spezzano catene, spaccano tavole di legno o mattoni, sostengono sulla loro testa una piramide di uomini in bilico. I bambini, data la giovane età, erano ospitati nella roulotte del direttore, i cui figli, ormai grandi, erano in giro per il mondo a lavorare in altri circhi per fare esperienza.

Quando giunsero nei pressi di Grosseto decisero di fermarsi e di chiedere al Comune il permesso di anticipare gli spettacoli programmati tra quindici giorni.

Non ci furono problemi e la sera stessa il circo e i suoi artisti erano pronti per lo spettacolo.

Ad Omar era stato procurato un tamburo ed un costume adatto per il suo numero. Passò il pomeriggio ad esercitarsi, perché era passato molto tempo da quando aveva danzato e cantato l’ultima volta il rito propiziatorio per la caccia, ma le cose imparate da ragazzi restano nelle gambe e ben presto si sentì sicuro di sé.

Mentre Omar si esercitava all’aperto, Ivan dimostrava la sua abilità al trapezio , sotto il tendone. Anche lui aveva imparato da piccolo. Nato nella grande pianura ungherese era rimasto ben presto orfano ed era stato accolto da una famiglia, quasi una tribù, di girovaghi, che gli avevano insegnato esercizi di agilità, numeri da strada. Non lo trattavano male, ma lui era sempre alla ricerca di qualcosa. Sui sei anni fuggì e si rifugiò in un circo con il quale giunse fino in Jugoslavia. Aveva solo nove anni e già sapeva eseguire numeri da funambolo e da trapezista. Per un banale litigio abbandonò anche il circo e finì tra gli zingari. Con loro fece un po’ di tutto, ma non amava parlarne. Girovagò fino alla Francia , imparò ad esprimersi in molte lingue, in modo scorretto, ma comprensibile e, quando a dodici anni giunse in Italia, decise di mettersi in proprio. Ormai si sentiva adulto: sapeva mentire, rubare, saltare, arrampicarsi, procurarsi in qualche modo l’occorrente per vivere. Fu allora che incontrò Marco.

Marco quel pomeriggio girò intorno, dentro e fuori il tendone a guardare gli artisti che si preparavano. Vide anche Omar, ma così seminudo, con la testa piumata, non lo riconobbe. Omar invece fu colto dal panico. Come poteva Marco essere lì? Era un incubo. Forse un miraggio. Il senso di colpa, per aver abbandonato il piccolo, che gli era stato affidato, non lo aveva abbandonato un attimo da quando era fuggito dal campo. Ora la sua mente stanca forse proiettava l’immagine del bambino lì nei dintorni. Marco del resto, se fosse stato vero, l’avrebbe riconosciuto, chiamato, invece niente, si era allontanato con la massima indifferenza. Certo era un incubo, decise. Omar però non ebbe pace finché non andò a parlare con il direttore del circo. Era così agitato che il suo italiano fu peggiore del solito.

– Io visto bambino piccolo. Dove preso bambino. Chi essere bambino? – chiedeva concitato.

Il direttore sbuffò. Certo che a prendere su tutti si aveva a che fare con gente ben strana, pensò.

– Non so di cosa parli. Io ho da fare adesso. –

– Bambino Marco, qui ? – chiedeva implorante Omar.

– Qui ci sono quattro ragazzini, che si chiamano Marco, non so cosa ti prende oggi. Pensa ai fatti tuoi, a non far brutta figura stasera. I toscani non scherzano se c’è da fischiare e noi dobbiamo guadagnarci la pagnotta. Tutto il resto non ci interessa. – concluse il direttore allontanandosi. Si voltò e quasi inciampò in Marco, che arrivava di corsa.

– Ecco, anche lui si chiama Marco – disse rivolto a Omar.

Il povero vecchio scoppiò a piangere. A quel punto Marco lo riconobbe e gli saltò al collo, mentre il direttore restava di sasso

– Ma voi due vi conoscete! – esclamò.

Omar fu obbligato a raccontargli sinteticamente tutta la storia. Intanto Marco gli saltellava intorno come un cucciolo, gli dava pizzicotti, gli saliva sui piedi, faceva di tutto per attirare la sua attenzione. Quell’esibizione aveva attirato l’interesse del direttore, che, mentre ascoltava la storia di Omar, pensava a come realizzare un numero, semplice semplice, con quei due. Sì, avrebbe fatto lavorare anche Marco. Il vecchio clown e il bambino. Un numero commovente. Del resto nel circo non c’è scandalo a far lavorare i bambini.

– Ora bisogna dire Polizia porta Marco sua famiglia.- concluse Omar.

– Non ci penso neanche – esclamò il direttore.- Io con la Polizia non ci voglio aver niente a che fare. Sono sempre grane. Quando vi ho accolto non vi ho chiesto niente. Ora se volete andare alla Polizia, siete liberi di farlo, ma via di qua! Non voglio essere coinvolto in questa storia. Io per voi non esisto, capito? – concluse alzando sempre più il tono della voce.

A questo punto Marco ebbe una delle sue crisi di pianto isterico, che Omar riuscì a calmare con il solito metodo del volo in aria.

Il direttore ripensò a quello che aveva detto e si corresse: – Pensa a quello che rischi anche tu se vai alla Polizia, Omar. Quelli ti rispediscono in Africa col primo volo. Invece se rimarrete con me, avrete una certa protezione in cambio di vitto e alloggio più qualche mancia. Hai visto? Non è male la vita del circo. Anzi per me è la più bella vita del mondo. Pensaci su una notte, almeno poi deciderai. Intanto per lo spettacolo di questa sera oltre alla tua danza rituale, io vedrei bene un numero con il bambino. Proprio come avete fatto qui davanti a me: tu vestito come quando sei arrivato fai la parte di un mendicante, che riposa per strada. Lui ti viene intorno e ti disturba fino a svegliarti. Tu ti metti a gridare nella tua lingua, lui si spaventa e piange, tu lo sollevi per le caviglie, lo lanci, lo riprendi e la scena si conclude con un abbraccio. Commovente, ti assicuro che avrete successo.- girò sui tacchi e si allontanò, per non concedere repliche.

Omar decise di obbedire, un giorno prima o dopo non faceva una grande differenza. L’indomani però avrebbe rischiato la prigione, l’espulsione, tutto purché Marco si ricongiungesse con i suoi cari.

L’INCONTRO

Mara era ancora lì intorno alla casa, esausta, intontita. Aveva chiamato a lungo i nomi dei suoi genitori, di Marco, in risposta solo la voce del vento e del mare. Ecco sugli scogli apparire una figura cara: Mario. Gli corse incontro singhiozzando, si abbracciarono a lungo. Mario le accarezzava la testa, le spalle, senza parlare, poi quando si fu calmata e fu in grado di ascoltare le disse:

– Marco è vivo, si è salvato. Sono sicuro. Me lo hanno detto al campo, ho raccolto la sua sciarpa su un cespuglio. Eccola. E’ sua, vero? – chiese alla moglie con un tremito nella voce.

– Sì, è sua, la riconosco, poi vedi qua: avevo ricamato le sue iniziali M B. Marco Baccini, è proprio la sua. Dov’era?- chiese lei con la voce piena di speranza.

– Al campo della Croce Rossa. Ieri sera è arrivato là accompagnato da Omar, hanno avuto cibo e acqua. Poi non so come mai sono spariti. Nessuno li ha più visti.-

A Mara sembrò di precipitare in pozzo buio, umido soffocante.

– Oh, mio Dio, lo sapevo, lo sentivo che non dovevamo affidarlo a quell’uomo. Uno sconosciuto, nero, chissà cosa gli ha fatto. – e ricominciò a piangere.

– Mara, se fosse rimasto a casa, sarebbe morto. Ricordatelo. – sbottò Mario – Con lui si è salvato e sono sicuro, che non gli è accaduto niente di male. E’ un momento di gran confusione. Nessuno sa niente. Magari sono nascosti qui vicino. Non dimenticare che Omar è un clandestino appena arrivato. Dovrà pur proteggersi in qualche modo. Dio sa quale.- sospirò.

Decisero di tornare in paese al Centro della Protezione Civile e chiedere l’aiuto di volontari per scavare tra le macerie della loro casa. Non sapevano bene come affrontare la ricerca di Marco. A Mario dispiaceva denunciare il fatto a Carabinieri e Polizia per non mettere nei guai Omar, che, ne era sicuro, si stava prendendo cura di Marco da qualche parte. Convinse così Mara ad aspettare ancora un giorno intero. Nel frattempo avrebbero diffuso la voce tra amici e colleghi di lavoro . Chissà, qualcuno avrebbe potuto aiutarli.

LO SPETTACOLO

Il circo era pieno di gente vociante. Faceva abbastanza freddo e il fiato di uomini e animali si condensava in nuvolette biancastre, prima di disperdersi.

L’orchestra attaccò una marcia allegra. Lo spettacolo ebbe inizio: cavalli e cavalieri, animali addestrati, trapezisti ed equilibristi, giocolieri e pagliacci tutti ebbero i loro applausi. Anche Omar fu ammirato nella sua danza rituale. Marco era il fan più entusiasta. Infine toccò a loro due. Marco non sapeva bene quello che doveva fare, ma quando vide Omar, vestito da ispettore scolastico, accosciato per terra con la testa sulle braccia conserte, che fingeva di dormire, incominciò a far di tutto per svegliarlo. Di colpo il vecchio gigante si alzò, sbraitando in una lingua sconosciuta e lui restò paralizzato, quasi senza respiro. Poi incominciò a irrigidirsi e a gridare con quanto fiato aveva in gola. Il vecchio lo prese per le caviglie come se avesse voluto buttarlo via, lontano da sé, e la gente trattenne il fiato. Che razza di numero era quello ? Marco volò in alto, una volta, due volte, tre volte e sempre veniva riagguantato con sicurezza da Omar. Il pianto era cessato e, come al solito, la scena finì in un abbraccio. Insolito, ma toccante. Il pubblico applaudì. Era fatta.

Tra il pubblico c’era un ferroviere toscano, amico di Mario. Non aveva ricevuto nessuna comunicazione sulla scomparsa del bambino, ma la somiglianza tra il piccolo attore e il figlio del suo amico era veramente straordinaria. Durante il carosello finale sentì anche il nome: Marco.

Strano, pensò, a volte nella vita si incontrano dei veri e propri sosia. Aveva visto il bambino una settimana prima del terremoto. Durante le ferie di Mario era andato a trovarlo ed avevano pescato insieme. Più ci pensava, più gli sembrava che Marco Baccini e il Marco del circo fossero la stessa persona. Lo spettacolo era ormai finito e il ferroviere con la sua famiglia si stava avviando verso casa, quando decise di avvertire in qualche modo il suo collega Mario. Sapeva del terremoto, sapeva dell’impossibilità di chiamarlo al telefono a casa, non sapeva come mettersi in contatto con la protezione civile, quindi decise di mettersi in comunicazione con qualche altro collega che abitava nella zona di Mario. Scelse Ernesto Spina di Bonassola. Era tardi, ma lo chiamò lo stesso. Per fortuna il telefono funzionava. Appena sentì la notizia Ernesto sbottò in un : – Evviva l’abbiamo trovato – che confermò la verità della sua intuizione. I due si spiegarono in breve tempo e, a mezzanotte, Mario e Mara già sapevano dove ritrovare il loro bambino. Decisero di partire all’alba, con la barca di Mario, che non era stata danneggiata dal terremoto. Bastava arrivare a Bonassola e poi proseguire con il treno fino a Grosseto. Alla stazione, li aspettava l’amico ferroviere che li avrebbe accompagnati in auto fino al circo. Finalmente si addormentarono vicini e sereni.

IL RITROVAMENTO
Omar aveva dormito poco quella notte. A dire il vero da quando era arrivato in Italia aveva dormito poco e male. La prima notte, nella casa sulla spiaggia, era stato incerto se accettare o meno l’offerta di Mario. La seconda notte l’aveva passata fuggendo per i sentieri di montagna, la terza notte aveva riposato abbastanza sotto il tendone del circo, anche se ogni tanto si svegliava di soprassalto con il rimorso di aver abbandonato Marco ed ora, dopo lo spettacolo a Grosseto era tormentato dal dubbio. Cosa avrebbe fatto l’indomani? Come consegnare Marco alla Polizia, senza rischiare troppo?. Al mattino era indolenzito , ma deciso ad agire. L’unica strada era prendere il bambino per mano e condurlo al più vicino commissariato. Lì avrebbe detto: – Questo bambino si chiama Marco. Abita a Moneglia. I suoi genitori lo stanno cercando. – e poi, succedesse un po’ quello che doveva succedere. Intanto a lui non importava più molto della vita. Il bambino invece aveva davanti a sé tutto il futuro e doveva viverlo bene.

Un po’ intontito, un po’ addolorato, ma deciso a non farsi più influenzare da niente e da nessuno, Omar andò a svegliare Marco.

– Vieni , Bacchetta, ti porto da papà. –

– Davvero ? Dov’è il mio papà ? Ma io voglio anche la mamma. –

– Sì, sì mamma, papà, tutti. –

– Anche i nonni ?- chiese Marco con voce esitante.

– Io non sapere niente. Tu vieni zitto .-

Marco intuì che stavano per fare una cosa importante e seguì Omar senza fiatare.

Si allontanarono dal circo senza essere notati e si incamminarono per la strada comunale verso il centro.

Avevano percorso sì e no mezzo chilometro, quando un’auto, che procedeva veloce verso di loro , si bloccò di colpo, dopo averli superati.

– Accidenti – disse Marco, mentre Omar si voltava preoccupato.

Dall’auto schizzarono fuori tre persone che, come invasate, correvano e gridavano: – Marco, Omar, Marco, Omar.-

Il bambino capì prima del vecchio e corse incontro alla mamma e al papà a braccia larghe come ali. Gli abbracci furono lunghi, intensi, commoventi. Omar, fermo sul bordo della strada guardava la scena con nostalgia. Lui non aveva più nessuno da abbracciare, da cercare. Presto fu raggiunto dal gruppo. Era pronto alle accuse più pesanti, invece la prima parola fu un grazie. – Grazie, Omar, me l’hai salvato – fu la prima frase di Mario. Poi però incominciarono le domande, la ricerca di spiegazioni. Come erano finiti lì ? Dove stavano andando ora ?

Omar spiegò tutto nel suo italiano stentato, ma comprensibile. Marco integrò la storia raccontando il suo incontro con Ivan, la fuga, il circo.

Ora che il passato era stato chiarito bisognava decidere il futuro. Omar stava lì fermo, come in attesa di sentenza. Nella migliore delle ipotesi sperava di potersene tornare a lavorare nel circo, ma era pronto anche al rimpatrio.

– Adesso, torniamo a casa. – disse Mara e subito provò una fitta al cuore, perché la casa non c’era più.

– E tu che farai, Omar ?- chiese Mario al vecchio nero.

– Io libero?- domandò incredulo Omar.

Intanto Marco aveva preso l’amico per mano.

– Non del tutto.- disse sorridendo Mario – Per qualche anno avremo bisogno di te . Lo sai noi lavoriamo e, purtroppo, i nonni non ci sono più . Vuoi far da nonno a Marco ?-

Due grosse lacrime lucenti come diamanti brillavano sulle guance di Omar. Lui che aveva perso ogni speranza di discendenza, lui che aveva perso tutto, ora ritrovava una ragione di vita. Aprì la bocca per rispondere, ma il nodo alla gola gli impedì di farlo, allora con la testa, con gli occhi, con le mani aperte ad abbracciare Marco disse di sì.

-E le vacanze le faremo in Africa. – concluse Mario.

© 2005 A. Bottini

Vivono nel mare, insieme alle balene e alle meduse, anche la Verità, la Vita, la Sapienza.
Lungo i secoli molti marinai, pescatori, bambini le hanno incontrate, ma nessuno ha mai creduto ai loro racconti. Così, ancora oggi, molti ignorano questi tesori del mare.
Un bambino viveva su un’isola del Mediterraneo con il suo papà, che faceva il guardiano del faro. La mamma non aveva resistito a quella vita solitaria ed era ritornata al suo lavoro in città.
Sull’isola non abitava nessun altro, ma il guardiano del faro aveva molti amici. Spesso venivano a trovarlo.
A Carlo, il bambino, piaceva vivere sull’isola. Passava il tempo nell’orto del papà o sulla spiaggia in amicizia con gli animali e la natura. L’unico suo cruccio era la nostalgia della mamma e quando questo sentimento lo assaliva con più forza, si sedeva sulla spiaggia a buttare pietre in mare e a leccarsi le lacrime, che non riusciva a trattenere.
Un giorno, mentre lasciava che le lacrime scorressero libere, apparve davanti a lui un’onda altissima e trasparente come cristallo.
– Chi sei? – chiese il bambino.
– Sono la Verità – rispose l’onda.
– Allora dimmi, la mia mamma mi vuole bene? – domandò.
– Sì, non sa neppure lei quanto – rispose di rimando l’onda.
– E come faccio a farglielo capire?
– Io sono la Verità. So come sono le cose e le persone, ma non so cambiarle. – rispose l’onda appiattendosi.
Prima che l’onda scomparisse del tutto, Carlo vide un delfino trapassarla ed agitare la coda in segno di saluto.
– Ciao delfino. – gridò Carlo.
Poco dopo il mare cambiò di nuovo aspetto. Proprio lì, davanti al bambino, si formò una chiazza, un laghetto quasi. Lo specchio d’acqua appariva sempre diverso: ora liscio e piatto come una lamina d’acciaio, ora increspato e azzurro, poi verde agitato, blu profondo, trasparente e leggero come aria.
– Come sei bello, mare! – esclamò Carlo.
– Io sono la Vita. Sono mutevole. Ricordati che mi hai trovato bella. Se non cambierai idea, io ti darò molto. – disse la Vita, mentre continuava a cambiare aspetto.
– Io rivoglio la mia mamma. – disse Carlo quasi piangendo.
– La riavrai – disse il delfino balzando fuori dallo specchio della Vita.
– Come?- gridò Carlo, ma il delfino e lo specchio della Vita erano già scomparsi.
Tutto rimase tranquillo per un certo periodo, mentre Carlo stava ancora sulla spiaggia. Rifletteva su quanto aveva visto e non si decideva ad andarsene.
Ed ecco di nuovo il mare mutare. La superficie si appiattì, il colore s’ intensificò in un turchese denso e consistente. Era veramente bello, ma intimoriva quasi. L’acqua sembrava marmo.
Il colore parlò a Carlo:
– Io sono la Sapienza. Abito il mare e gli uomini non mi amano. Cosa vuoi da me, Carlo?
– Io vorrei il ritorno della mia mamma – rispose il bambino intimidito – Mi manca solo questo.
– E’ un bisogno vero – sentenziò la Sapienza – Non stancarti di ripeterlo alla mamma e al papà. Capiranno. Ricordati: non stancarti, sii tenace – concluse la Sapienza, inabissandosi con il suo colore, mentre il delfino la seguiva verso il fondo.
Carlo tornò al faro contento e agitato. Non vedeva l’ora di raccontare tutto al suo papà, che quella sera aveva a cena parecchi amici.
Appena il bambino incominciò a raccontare, gli adulti si scambiarono occhiate d’incredulità e derisione.
– Bella fantasia – disse uno. – Diventerà un romanziere – aggiunse un altro.
– Dai, Carlo, smettila – gli intimò infine il papà.
Carlo, però, si sentiva forte e sicuro e continuò il suo racconto senza lasciarsi intimidire. Alla fine alcuni amici avevano l’aria seria e preoccupata.
– Questo bambino sta troppo da solo. Devi provvedere, Maurizio. Meglio un collegio di una vita così isolata.
I consigli si susseguivano, quando un lampo squarciò le tenebre della notte e sul mare apparvero insieme la Verità, la Vita e la Sapienza, con il delfino che nuotava da una all’altra. Fu un attimo, il tempo di un fulmine, ma tutti zittirono, videro e , forse, qualcosa capirono.
– Domani, telefonerò alla mamma e parleremo di te. – disse il papà a Carlo.
La mamma non vedeva l’ora di essere cercata: il lavoro da solo non le bastava.
– Ho già in mente la soluzione – disse al marito – Tornerò sull’isola. Posso lavorare con il computer e, una volta alla settimana, io e Carlo andremo insieme in città per organizzare il mio lavoro e fare la spesa. Forse così funzionerà. – concluse.
Carlo era felicissimo della decisione della mamma, il suo papà anche.
Stavano correndo insieme sulla spiaggia per festeggiare, quando apparve il delfino.
– Ciao delfino, grazie. – disse Carlo.
– Io ti ho salvato – rispose il delfino – Tu, crescendo, salva il mare.
– Lo farò, se m’insegnerai – gridò Carlo, mentre il delfino spariva.
E questa volta sentì anche il suo papà.

© A.Bottini 2006

La cuoca sapiente ha un segreto, così segreto, che forse neppure lei lo sa. Lei invita persone che stanno bene insieme. Le viene naturale, le mette a loro agio, le fa sentire gradite, loro si divertono e tutto questo buon umore rende i cibi più gustosi e saporiti, speciali e persino più digeribili.
Alla sua tavola siede sempre una giovane contadina che si adorna di corone di foglie e di fiori intrecciati, freschi, profumati, più significativi dei gioielli delle Regine.
La giovane procura alla cuoca sapiente gli ingredienti di giornata, accuratamente coltivati e raccolti nel suo orto. Non tutti però, perché alla cuoca sapiente piace molto cucinare piatti di verdure selvatiche, ma cucinarli non le basta: lei vuole incominciare dal principio, cioè dalla raccolta delle erbe nei campi e negli orti. E’ una delle attività che la divertono di più. Si sente un po’ maga, un po’ erborista, un po’ primitiva e mentre cammina, osserva e raccoglie. Le sembra di onorare la conoscenza trasmessa dalle donne dal neolitico in su, per tutta la storia fino a noi. In questa attività è spesso accompagnata dalla giovane contadina e insieme parlano, si confidano speranze e segreti.
Un giorno la giovane contadina confidò alla cuoca sapiente di essersi innamorata del giovane principe con i capelli biondi, lisci, che gli scendono dal cappello piumato. Lui siede all’estrema sinistra del tavolo, lei all’estrema destra, sono separati dal Re, dalle dame e dai cavalieri di corte, ma tra loro gli sguardi portano messaggi d’amore e d’attrazione.
La cuoca sapiente sorride e aggrotta la fronte:
-E’ una bella notizia sentir parlare d’amore, ma mi preoccupa il tuo amore per il principe, potresti soffrire molto – le dice con un sospiro.
– Perché? – si ribella la giovane. – Sento di piacergli.
– Sai che fatica! Sei bella, sei giovane, sei simpatica, certo che gli piaci, ma amare è un’altra cosa. E’…condividere. .
– Io posso condividere tutto con lui.
– I principi sai, a volte sono viziati e capricciosi, ma ho un’idea. Mettiamolo alla prova..
– Come?
– Dovrà superare tre prove per dimostrare il suo sincero interesse per te. Primo: dovrà accettare di venire per erbe con te, secondo: dovrà chinarsi e raccoglierle, terzo: dovrà imparare almeno tre nomi di erbe.
– Va bene, stasera lo invito e se domani mattina presto sarà nel prato vuol dire che mi ama.
– Uh, come corri. Bada bene che io vi terrò d’occhio da lontano e controllerò le tre prove.
– Uh, come sei diffidente!- sorrise la giovane contadina di rimando.
Il giorno incominciò bene. Il principe in anticipo aspettava la giovane nel prato. Appena la vide le corse incontro e si offrì di portare il cesto. Incominciò la ricerca e la raccolta.
– Ecco- mostrava col dito la giovane – quella è buona. E’ il tarassaco, vedi il fiore giallo e più in là qualche pianta già più matura con il soffione. Sono buone e fanno bene.- .
E il principe raccoglieva con cura insieme a lei. Ad un certo punto preso un soffione, soffiò verso di lei declamando:
– Bianchi semi, piume leggere, volate, volate e dite al mondo il mio amore per lei .
La giovane arrossì, chinò la testa e lo prese per mano per guidarlo verso altre erbe che spuntavano dalla terra smossa.
– Questa è la cicoria – disse lei chinandosi .
– Ma, non è possibile – esclamò lui e a lei il cuore attese un istante per la paura che rifiutasse la prova – sono tutte uguali, come fai a riconoscerle,
– Se, verrai spesso con me imparerai anche tu. Tra un po’ la cicoria avrà fiori azzurri come il fiordaliso.
– Ah, adesso sì che mi è chiara la differenza. Che cos’è il fiordaliso?- borbottò lui, ma intanto continuava a raccogliere con la schiena piegata.
– Quante cose non sai – disse lei sorridendo felice.
– Ti diverte?
– Sì, perché sono insieme a te.- Rispose lei.
– Imparerò tutto della tua vita e ti insegnerò tutto della mia. Insieme saremo una miniera di sapienza.- Rise lui felice.
Finalmente arrivarono in un posto dove cresceva la pimpinella.
– Questa sì che la riconosco- disse lui mentre rincorreva la ragazza con un rametto in mano
– Pimpinella, pimpinella fa’ il solletico alla mia bella – diceva scherzando..
La cuoca sapiente seduta sotto un albero su un’altura approvava con la testa, mentre con le mani puliva le erbe già raccolte e intanto pensava: “A giorni annunciamo il fidanzamento rallegrato da una bella cena .a base di pansoti con salsa di noci, torta pasqualina con tante uova intere quanti saranno i figli che le auguriamo e poi un dolce di ricotta tenera e fresca come il loro amore…” E la fantasia andava all’amore, ormai scomparso, che aveva rallegrato la sua vita, e poi di nuovo concretamente alla cena, agli inviti, ai posti a tavola e…di colpo se li trovò davanti.
– Buongiorno, principe, che sorpresa – mentì.- Cosa avete raccolto?
– Tarassaco, pimpinella e cicoria – disse lui.
– E poi anche acetosella, papavero, boraggine lattuga scaiola, ortica e altro ancora. Un bel miscuglio.- aggiunse lei.
– Quando festeggeremo?- chiese d’impulso la cuoca sapiente gettando la maschera.
– Che cosa?- chiese con ironia scherzosa il principe.
– Il nostro amore- rispose sicura la giovane contadina.
– Incominciamo ora – disse il principe – io chiamo a testimone questo antico albero e ti chiedo di sposarmi il più presto possibile- .
Lei rispose con un abbraccio, mentre la cuoca sapiente si alzava dicendo:
– Forza andiamo a pulire le verdure.